Squash Me Tender

Photo by Lucia Massacesi

I’m feeling pretty good as of now 
I’m not so sure when I got here and how 
Sun melt in the fake smile away 
I think you know I’ll be ok 

Eels, Grace Kelly Blues

Al sabato mattino ciascuno di noi prenota un campo attorno alla stessa ora. Dopo le partite a due scatta l’invasione dell’ultimo campo ancora disponibile. Uno dopo l’altro, fino anche a otto giocatori, scorriamo lungo la parete di vetro del fondo, e subito hanno inizio i mini match a due sui tre quarti del campo. Chi perde lo scambio lascia spazio allo sfidante successivo e avanti così, finché i migliori non si assestano per lunghi divertentissimi minuti. Fra tutti sono quella che entra ed esce dal gioco nel modo più fulminante: il tempo di una battuta, di eseguire uno, due, al massimo tre scambi, e mi ritrovo incollata al vetro di fondo campo, tramortito pesce d’acquario, nella testa il solito mantra “sarai più fortunata”.

L’effetto silenzio dell’acquario qui però non si applica. Alcuni di noi sono tanto chiassosi da trasformarsi in fastidiose insidie per i concentratissimi giocatori dei campi attigui. Infine, anche per il nostro gruppo di pazzi arriva il momento di riporre le racchette. Saliamo tutti al piano superiore, appuntamento nella stanzetta di legno della sauna. Neanche qui si rinuncia a parlare ma ora tutto avviene in modo più rilassato. Addirittura, quando un volontario tra noi si alza per andare ad aggiungere acqua sulle pietre roventi, nessuno dice più nulla e ciascuno rimane a tu per tu coi propri pensieri, colto in un delicato frame del nostro limbo di mezza età, ciascuno nel tentativo di smaltire col sudore, goccia dopo goccia, il proprio carico di veleni settimanali. Quando usciamo dal cubicolo di legno, la rinascita c’è stata o non c’è stata, femmine e maschi ci fiondiamo nei rispettivi spogliatoi. Doccia fredda per le audaci e a seguire la fase che per noi donne tende a infinito, la vestizione. Il tempo dell’asciugatura capelli scorre tutt’uno con quello del chiacchiericcio scanzonato e a tratti assolutorio, segue il malinconico riassemblaggio delle parti, coronato da quello del maquillage davanti all’impietoso specchio delle nostre brame. Intanto i maschi sono già ringalluzziti e pronti al piano terra. Coi visi ossigenati e perfino paonazzi dopo la sauna, sono allegri bambini in gita che tonneggiano attorno all’alto tavolo con contorno di sgabelli Ikea, dove si allestisce il rito del mega aperitivo. Sebbene nulla abbia a che vedere con quello rotondo e mitico dei cavalieri arturiani, ne conserva minime tracce. Tonneggiano attorno rilassati e ipotizzano quantità epiche di pinte di birra da ordinare a Jessy. Ciascuno rivela un’attitudine e uno scopo:  c’è chi si intrattiene pigro sulle pagine rosa della gazzetta dello sport, chi è colto da fervore organizzativo – o forse soltanto da un attacco acuto di fame – e in un baleno dispone sul lazy susan un tripudio di patatine, olive di dimensioni e colorazioni varie, a sorpresa anche ripiene, chi concentrato estrae da confezioni sigillate mozzarelline ancora fresche di frigo. Nè mancano all’appello i grissini artigianali, perché l’immaginario gastronomico di questi quaranta-cinquantenni ricapitola un più recondito menù di desideri. Ancora una sequenza di minuti e anche l’arrivo delle compagne di gioco si materializza nell’aria: lo annunciano il cocktail delle profumazioni dei loro corpi rilassati e soprattutto la polifonia di gridolini assortiti e risate spensierate. E’ un tranquillo sabato mattina milanese e per un paio d’ore il mondo là fuori può andare avanti senza di noi.

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Give the Ball a Chance

Regola n.1 Guarda la pallina, non perderla mai di vista

Quando occupi una posizione in campo dietro al tuo avversario è facile vedere ciò che sta facendo, ma quando sei tu davanti devi voltarti e seguire la traiettoria di ogni tuo colpo. Solo in questa maniera si potranno capire i colpi dell’avversario.

Perdo sempre la partita perché non seguo la pallina con lo sguardo. Tutti migliorano e salgono di varie posizioni nella lunchtime league del Polisquash eccetto me, che continuo a occupare la vischiosa parte bassa della classifica. Di qui sono passati tutti, per salir su, chi prima, chi dopo, agli onori della parte superiore della tabella e come una monella di scuola materna nella calca di un distratto pubblico adulto, li osservo lassù, maturi proprietari dei movimenti giusti, ciascuno proveniente da qualche travagliata storia personale ma infine vincente, meritevole di una forma di rispetto a cui non ho animo di ambire. Tutto questo perché non mi concentro sulla pallina e d’altronde lei non aspetta me: se ne schizza via per la sua, taglia l’aria del campo ed è capace di lasciare anche tracce dolorose, se mi trova di mezzo. Perché, mai scherzare con la pallina da squash, massimo rispetto per i suoi poteri pressoché illimitati. Eppure ci sarà un momento in cui diventeremo alleate, se non simbiotiche, e assieme sprigioneremo quel suono giusto e rotondo che acquista il colpo eseguito alla perfezione. Perché, a differenza degli altri giocatori che puntano al profitto domestico della vittoria, io mi attardo alla ricerca del movimento perfetto, rimandando l’incontro col qui e ora, nonostante la saggezza che l’età mi assegna. Intanto, nella vita come nello squash, il gioco va avanti e le regole le detta il caso, che  ti sposta a suo piacimento da una parte all’altra del ristretto quadrato di gioco. Adattamenti continui alle circostanze, imprevisti che si sommano e imprimono una direzione sempre diversa agli affanni del giorno, questo è anche il balletto impossibile dello squash, questo il motivo per cui continuo a perdere ogni singola partita, nonostante le lezioni di Duncan. Quanti i colpi sbagliati e le sconfitte accumulate nelle stagioni che passano, con Duncan che scommette una birra su ogni serie di esercizi assegnata, mezz’ora di lezione dopo mezz’ora di lezione. Cliente perfetta per questa prodigiosa canaglia sbarcata a Milano da Londra. Duncan, che ha compiuto l’impresa più memorabile della sua vita – attraversare a nuoto il Canale della Manica – il mattino in cui dall’altra parte dell’Atlantico le torri gemelle crollavano e io, ancora del tutto all’oscuro delle arti dello squash, giocavo solo a fare la mamma. Duncan, che alza la pinta di birra e brinda, “Lucia, give the ball a chance.”

Arrivederci, Professor Colombo

Gli occhi gonfi di Clara fissano senza vedere una gamba del tavolo inglese, sono sul punto di tracimare e forse per impedirlo preme due dita sulle labbra serrate. La combinazione di capelli biondo stopposo e pelle cotta dal sole la trasformano in un elemento esotico da salotto borghese, maschera tribale simile a quelle che da bambina Anna aveva contemplato con timido orrore al museo Pigorini. Anche i ragazzi hanno perso le parole. Custodi di pensieri remoti, osservano la madre turbinare da una stanza all’altra di una scenografia domestica che presto resterà senza attori. Per sempre? Anna non ha tempo di pensarci né di incoraggiare emozioni superflue, si ripromette di indulgervi in un momento più opportuno. Il fatto è che nell’ultima manciata di giorni le ore le si sono affastellate. A pochi minuti dalla partenza è ancora lì a vagliare le ultime mille questioni pendenti – scartoffie, oggetti -, compresa la gestione del cibo: quello da eliminare, da lasciare o da portar via. Difficile uscire di scena.

“E queste sacche dove le vuoi mettere? Quanto tempo ti serve ancora? Stiamo facendo tardi e soprattutto l’auto è già stracolma!” La carica di ansia che non le è stata trasmessa dalla madre del compagno, troppo devastata dalla notizia fresca fresca del decesso per complicanze post-operatorie dell’amata gatta, le giunge da lui. Infine, è il momento dei saluti.

“Ciao Papà, mi mancherai, guida piano, ti voglio tanto bene.” C’è calore più che mestizia nello sguardo del loro grande dodicenne. Come se ormai avesse mutato pelle: non più il bambino smarrito che in un’alba gelida di dicembre aveva abbracciato il padre che partiva con una grossa valigia. Allora qualcosa dentro di lui deve essersi infranto per sempre, secondo il padre, un trauma irreversibile, secondo la madre, un necessario rito di passaggio, il primo di tanti che la vita gli avrebbe riservato. Il turno di abbracciare i ragazzi arriva anche per Anna e a tutti – a eccezione di Clara – scappa un sorriso complice: questo è un momento epico per la famiglia, qualcosa che non cambierà la grande storia ma di certo il corso dei loro destini. “Siate bravi con la nonna. Lele, rispetta e aiuta sempre tuo fratello. Vedrete come passano in fretta due giorni, vi aspettiamo agli arrivi, buon volo, ragazzi!” Per monelli di nove e dodici anni, nati e cresciuti a Milano, cambiare città, scuola, amici – ma soprattutto squadra di basket – equivale a un trasferimento su Marte. Addio compagni, addio coach, addio Lambrate. I trolley che li assisteranno nel delicato passaggio, sono già predisposti in un angolo della loro stanza e basterà completarli con qualche reliquia dell’ultimo momento. All’aeroporto, dopo un abbraccio infinito e un commosso arrivederci, la laconica nonna consegnerà nipoti e bagagli all’assistente di volo.

Sette piani più sotto, la strada li attende: sono pronti per partire. È una calda e tranquilla mattina di inizio settembre, il momento giusto per migrare, a lui il volante, ad Anna la scelta del percorso – un nastro d’asfalto lungo 1860 chilometri. Un segno della croce, un Padre Nostro, un sorriso e si va.

“Arrivederci, Professor Colombo!” – la sente esclamare all’angolo di piazzale Leonardo e le lancia uno sguardo interrogativo. “Ogni mattino coi bambini salutavamo la statua mentre tagliavamo il piazzale verso la scuola.” Anna prova un dolce sollievo nel vedere che il collo del pensoso primo rettore del politecnico è stato liberato dall’hula hoop arancione che un goliarda era riuscito a lanciare fin lassù, “è stato un onore conoscerla, buona giornata, ci mancherà! Addio, Milano, Bucarest stiamo arrivando!”

A Trieste arrivano in un baleno e lì si concedono un selfie solenne. Col tempo riusciranno a decifrare i pensieri nascosti dietro quei due sorrisi. Così diversi da quelli da turisti per caso, abbronzati e ingenui, catturati nel photo boot del Meeting di Rimini l’estate precedente. La foto di oggi sembra scattata in testa a un trampolino, in bilico sull’ignoto. Sguardi simili si trovano in loro foto del passato, quando, finiti gli studi, avevano fatto il loro ingresso nella vita adulta. Con una differenza: ora sono responsabili dei destini di due bambini. Anna si volge indietro: i loro sedili sono stati abbattuti e ora c’è un’unica distesa di borse e valigie ricoperta da un lenzuolo bianco, sudario del passato e copertina per un futuro che sta per nascere. Con soddisfazione osserva che è riuscita a trovare spazio anche per la bella chitarra spagnola, forse un giorno Lele riprenderà a suonarla. No, alle spalle non si sono lasciati nulla, in anticipo di due giorni sull’arrivo dei due, soltanto per predisporre il nuovo nido.

Migranti come innumerevoli altri in questo mondo instabile, fanno parte della privilegiata schiera degli expat, che possono permettersi di lasciare la propria terra alla ricerca di una vita più piena. Anna lo sa e ne sente la responsabilità: hanno fame di nuove occasioni di crescita, nuovi paesaggi, nuovi incontri. Il lago Balaton sfila via nitido e ventoso alla loro sinistra: sono giunti a metà strada e un filo sempre più tenue li lega alla loro vita precedente.

Quando varcano il confine romeno di Arad, Anna osserva per la prima volta i grossi nidi di cicogna su dei tralicci o sui tetti delle piccole case. Una nuova stagione sta per cominciare.