Arrivederci, Professor Colombo

Gli occhi gonfi di Clara fissano senza vedere una gamba del tavolo inglese, sono sul punto di tracimare e forse per impedirlo preme due dita sulle labbra serrate. La combinazione di capelli biondo stopposo e pelle cotta dal sole la trasformano in un elemento esotico da salotto borghese, maschera tribale simile a quelle che da bambina Anna aveva contemplato con timido orrore al museo Pigorini. Anche i ragazzi hanno perso le parole. Custodi di pensieri remoti, osservano la madre turbinare da una stanza all’altra di una scenografia domestica che presto resterà senza attori. Per sempre? Anna non ha tempo di pensarci né di incoraggiare emozioni superflue, si ripromette di indulgervi in un momento più opportuno. Il fatto è che nell’ultima manciata di giorni le ore le si sono affastellate. A pochi minuti dalla partenza è ancora lì a vagliare le ultime mille questioni pendenti – scartoffie, oggetti -, compresa la gestione del cibo: quello da eliminare, da lasciare o da portar via. Difficile uscire di scena.

“E queste sacche dove le vuoi mettere? Quanto tempo ti serve ancora? Stiamo facendo tardi e soprattutto l’auto è già stracolma!” La carica di ansia che non le è stata trasmessa dalla madre del compagno, troppo devastata dalla notizia fresca fresca del decesso per complicanze post-operatorie dell’amata gatta, le giunge da lui. Infine, è il momento dei saluti.

“Ciao Papà, mi mancherai, guida piano, ti voglio tanto bene.” C’è calore più che mestizia nello sguardo del loro grande dodicenne. Come se ormai avesse mutato pelle: non più il bambino smarrito che in un’alba gelida di dicembre aveva abbracciato il padre che partiva con una grossa valigia. Allora qualcosa dentro di lui deve essersi infranto per sempre, secondo il padre, un trauma irreversibile, secondo la madre, un necessario rito di passaggio, il primo di tanti che la vita gli avrebbe riservato. Il turno di abbracciare i ragazzi arriva anche per Anna e a tutti – a eccezione di Clara – scappa un sorriso complice: questo è un momento epico per la famiglia, qualcosa che non cambierà la grande storia ma di certo il corso dei loro destini. “Siate bravi con la nonna. Lele, rispetta e aiuta sempre tuo fratello. Vedrete come passano in fretta due giorni, vi aspettiamo agli arrivi, buon volo, ragazzi!” Per monelli di nove e dodici anni, nati e cresciuti a Milano, cambiare città, scuola, amici – ma soprattutto squadra di basket – equivale a un trasferimento su Marte. Addio compagni, addio coach, addio Lambrate. I trolley che li assisteranno nel delicato passaggio, sono già predisposti in un angolo della loro stanza e basterà completarli con qualche reliquia dell’ultimo momento. All’aeroporto, dopo un abbraccio infinito e un commosso arrivederci, la laconica nonna consegnerà nipoti e bagagli all’assistente di volo.

Sette piani più sotto, la strada li attende: sono pronti per partire. È una calda e tranquilla mattina di inizio settembre, il momento giusto per migrare, a lui il volante, ad Anna la scelta del percorso – un nastro d’asfalto lungo 1860 chilometri. Un segno della croce, un Padre Nostro, un sorriso e si va.

“Arrivederci, Professor Colombo!” – la sente esclamare all’angolo di piazzale Leonardo e le lancia uno sguardo interrogativo. “Ogni mattino coi bambini salutavamo la statua mentre tagliavamo il piazzale verso la scuola.” Anna prova un dolce sollievo nel vedere che il collo del pensoso primo rettore del politecnico è stato liberato dall’hula hoop arancione che un goliarda era riuscito a lanciare fin lassù, “è stato un onore conoscerla, buona giornata, ci mancherà! Addio, Milano, Bucarest stiamo arrivando!”

A Trieste arrivano in un baleno e lì si concedono un selfie solenne. Col tempo riusciranno a decifrare i pensieri nascosti dietro quei due sorrisi. Così diversi da quelli da turisti per caso, abbronzati e ingenui, catturati nel photo boot del Meeting di Rimini l’estate precedente. La foto di oggi sembra scattata in testa a un trampolino, in bilico sull’ignoto. Sguardi simili si trovano in loro foto del passato, quando, finiti gli studi, avevano fatto il loro ingresso nella vita adulta. Con una differenza: ora sono responsabili dei destini di due bambini. Anna si volge indietro: i loro sedili sono stati abbattuti e ora c’è un’unica distesa di borse e valigie ricoperta da un lenzuolo bianco, sudario del passato e copertina per un futuro che sta per nascere. Con soddisfazione osserva che è riuscita a trovare spazio anche per la bella chitarra spagnola, forse un giorno Lele riprenderà a suonarla. No, alle spalle non si sono lasciati nulla, in anticipo di due giorni sull’arrivo dei due, soltanto per predisporre il nuovo nido.

Migranti come innumerevoli altri in questo mondo instabile, fanno parte della privilegiata schiera degli expat, che possono permettersi di lasciare la propria terra alla ricerca di una vita più piena. Anna lo sa e ne sente la responsabilità: hanno fame di nuove occasioni di crescita, nuovi paesaggi, nuovi incontri. Il lago Balaton sfila via nitido e ventoso alla loro sinistra: sono giunti a metà strada e un filo sempre più tenue li lega alla loro vita precedente.

Quando varcano il confine romeno di Arad, Anna osserva per la prima volta i grossi nidi di cicogna su dei tralicci o sui tetti delle piccole case. Una nuova stagione sta per cominciare.