Muschio selvaggio

Quanti litri di sudore ancora prima di arrivare lassù? Perché se sempre meno centimetri separavano le sue dita dall’anello, ci sarebbero voluti altri mesi di lavoro prima di riuscire a piazzare la mano ancora più in alto e assestare la prima schiacciata della sua vita. Per la vocina che lo spronava a non mollare l’estasi sarebbe arrivata in un momento preciso: soltanto dopo esser rimasto appeso al ring anche se per un nanosecondo e a rischio di far venire giù tutto, quando finalmente avrebbe potuto emettere il grido bestiale battendosi i pugni sul petto, nella fetida jungla della palestra di scuola.

A sedici anni, perché no, poteva ancora nutrire qualche ragionevole speranza di aggiungere un’altra manciata di centimetri alla sua altezza definitiva a maggior gloria della sua carriera di point guard. Anche se tutto fosse stato già scritto nei geni – le lezioni di biologia lo stavano mettendo in guardia in modo secco e inequivocabile – forse, nel mezzo della grande confusione che certamente regnava nel suo patrimonio genetico, il dibattito poteva ancora ritenersi aperto. Forse tessuti ossei corroborati da una dieta iperproteica avrebbero finito per ribellarsi e disobbedire all’ordine di attenersi alla statura media paterna. Forse un aiuto gli sarebbe venuto dal passato. Più volte aveva sentito dire che, in quanto a statura, in entrambi i rami familiari i nonni si erano saputi difendere, immaginari campioni di “palla al cesto”, come Wikipedia battezzava la pallacanestro degli esordi italiani.

A rendere tutto molto più complicato, da un mese ci si era messo anche un parassita. Seicento volte più piccolo del diametro di un capello, aveva costretto non soltanto lui e la sua famiglia ma milioni di cittadini di tutto il mondo a rimanere reclusi dentro le proprie abitazioni per evitare di venirne contagiati. Un ammasso minimo di RNA, il parassita aveva dimostrato di avere doti atletiche. In un dato giorno dell’inverno appena trascorso aveva compiuto un mega salto, passando dalla carne di un pipistrello a quella di un ignaro signore cinese. Senza nemmeno sapere che cosa fosse il male, la particella infettiva aveva cominciato a moltiplicarsi diffondendosi da individuo a individuo e a distribuire morte con la stessa logica di una roulette russa.

Nei laboratori di ricerca di tutto il mondo gli scienziati avevano aperto una colossale battuta di caccia per ricostruire l’identikit del malfattore e congegnare il vaccino che l’avrebbe messo in scacco, nel frattempo però, in ospedali sempre più affollati – come quelli della sua Lombardia -, la gente continuava a cadere come birilli. Nelle immagini che inondavano la rete – dalle pagine social a quelle giornalistiche – Milano appariva ormai una città fantasma e collocare i ricordi della sua infanzia felice in quelle strade ora deprivate di qualsiasi traccia di vita, gli provocava fitte di malinconia. A distrarlo da pensieri tristi ci pensava il fidato smartphone che continuava a ricevere notifiche come se nulla fosse mai cambiato.

A volte, prima di addormentarsi, era anche arrivato a immaginare che quella non fosse una nuova realtà ma pura finzione, l’ennesima trama apocalittica proposta da Netflix nella sezione “Nuovi Arrivi”. Forse, dopo una necessaria se massiccia dose di binge watching, la sua vita sarebbe tornata a scorrere dolce e libera esattamente come prima, lui soltanto un po’ più frastornato e affamato d’aria del normale, complice di nuovo di risate con gli amici e di baci con la sua bella Masha. Forse era soltanto un brutto sogno dal quale si sarebbe risvegliato non appena la città si fosse riattivata alle prime luci del nuovo giorno. L’orologio però continuava a non dare segni di rinsavimento, spingendo l’arrivo di quella nuova alba sempre più in là. 

Giorno dopo giorno, le sue uniche certezze erano diventate tutte le privazioni che aveva dovuto sperimentare. Aveva dovuto dire addio agli allenamenti quattro volte a settimana – di cui uno con sveglia alle cinque e mezza del mattino, prima dell’inizio delle lezioni -,  al campionato e all’attesissimo torneo CEESA a Istanbul. Gli era stata cancellata anche la gita di fine anno, con inconsapevole ironia denominata Week Without Walls. Il punto era che proprio mentre stava cominciando a scoprirlo e a trovarlo molto stimolante, il mondo esterno aveva smesso di accoglierlo. Non solo: con brusca battuta d’arresto, lo invitava anche a indossare mascherina e guanti e a rispettare la debita distanza dagli altri, semmai avesse avuto la necessità di uscire di casa.

Ora tutto, proprio tutto, avveniva all’interno del perimetro del suo appartamento e ancora più spesso, dentro la sua stanza: le lezioni di scuola, le sessioni di allenamento, gli scambi col fratello, Masha e gli amici – il tutto via snapchat o attraverso i giochi alla playstation -, attività quest’ultima troppo spesso ostacolata dai suoi. E come gli mancava anche il suo Bro, che le musical chairs del caso avevano assegnato a tutt’altra scena, all’interno di una residenza universitaria lontana 3119 chilometri da Kiev. Come sarebbe stato più sopportabile se almeno avessero potuto condividere il canestrino artigianale che papà era riuscito a costruirgli in camera, al termine di una lunga e memorabile sessione di progettazione e costruzione congiunta. Si sarebbero battuti fino allo sfinimento in interminabili sessioni di fulmine o knockout, magari poi postando qualche demenziale storia su snapchat. Di certo, alla fine non si sarebbero nemmeno più accorti che invece di essere sotto il canestro della palestra si trovavano sotto un trespolo di legno tenuto stabile con quattro bottiglioni d’acqua da cinque litri. C’erano però altri momenti in cui quasi era contento che fossero così lontani l’uno dall’altro, ciascuno padrone dei propri spazi e libero di sperimentare le sfide di questa nuova solitudine a modo proprio. 

Nonostante la sua attività motoria fosse ridotta al minimo – ormai non metteva il naso fuori di casa da settimane, nemmeno per andare a buttare il pattume – e l’offerta di cibo non mancasse – cucinare era divenuto per i suoi uno degli sfoghi principali – la sua armoniosa corporatura continuava a fiorire, come era giusto che fosse in quella stagione della vita. Con regolarità usava gli attrezzi da palestra che grazie all’insistenza del fratello in casa certo non mancavano. Qualche anno addietro, quando abitavano ancora in un’altra capitale, tutta la famiglia era andata in missione da Decathlon per procedere all’acquisto di un set di pesi, un bilanciere e una panca. Chi avrebbe mai immaginato che un giorno quell’attrezzatura da palestra avrebbe contribuito in modo decisivo a tenere alto il livello delle sue endorfine ai tempi del lockdown? Quanti quesiti come questo non smettevano di scoppiettare nella sua mente e, in un certo senso, a tenergli compagnia.

Quando non era utilizzato dai suoi, Netflix era uno dei diversivi. Finita la quarta serie di Casa de Papel, la canzone Bella Ciao gli era così entrata in testa che prese in mano la chitarra del fratello e – con l’aiuto dei tutorial di YouTube – provò e riprovò, fin quando il pezzo uscì dallo strumento vittorioso. In fondo, anche se non gli permettevano di passare troppe ore alla playstation, in quello strumento made in Spain, bottino di un’altra mitica spedizione familiare in uno storico negozio di chitarre di Milano, aveva trovato un confidente sensibile e pronto a elaborare i suoi pensieri in presa diretta.

Ascoltare i propri pensieri mentre prendevano forma era una sensazione curiosa e, a essere onesto, gli infondeva un coraggio nuovo. Su consiglio del fratello si era iscritto al canale di Fedez “Muschio Selvaggio” e – tra un compito di scuola e una strimpellata alla chitarra – lasciava che la strana coppia del rapper e l’influencer Luis, gli facesse incontrare una carrellata di individui, alcuni da ascoltare fino all’ultima parola. Anche QUESTA era cultura, cara mamma, rispondeva mentalmente alla genitrice che non perdeva occasione per stalkerare lui e il fratello con l’invio di “un link interessante”. Come un disco rotto, sparava che quella pausa forzata era un’opportunità da cogliere per guardarsi un po’ dentro. Parlava LEI, così capace di concentrazione che con regolarità impressionante riusciva a smarrire lo smartphone tra le mura di casa almeno una volta al giorno.

Era comunque grato, quasi felice di trascorrere gli strani giorni del suo primo lockdown in compagnia dei suoi. Ancora un paio di anni e sarebbe toccata anche a lui, emettere il grido bestiale, pugni al petto, finalmente pronto a entrare nella fetida jungla della vita là fuori, con o senza mascherina.