Lezioni di fioritura

Il sorriso poggia su lineamenti esotici e sembra riflettere le nostre aspettative: comunica empatia. Dal suo tappetino, seduto a gambe incrociate, il maestro di yoga Andrei ci osserva una ad una. Ha spalle larghe che sovrastano bicipiti ben definiti e una schiena eretta che dona eleganza alla figura. La lingua è una barriera neanche insormontabile perché ho una conoscenza base del russo e anche lui qualche frase in inglese è in grado di assemblarla, “slowly, slowly… take a deep breath“. In ogni modo mi piace l’immersione totale nella cultura e nella lingua, così come sapere di essere la mosca bianca in mezzo a un gruppo di agili venti-trentenni ucraine. Qui sono la babushka e di questo sorrido tra me e no, non lo rivelo a nessuno ma se anche già fosse noto, che bella medaglia: gli anni mi hanno depositata così, qui e ora. Narcisista certo rimango sempre ma ormai ben disposta a cedere lo specchio a chiunque lo reclami: allora me ne starei lì in un angolo a osservare e magari a scattare foto, a prendere eterni appunti per il romanzo di una vita che continua a chiedere di essere scritto e al contempo a nascondersi.

Andrei riduce l’uso delle parole al minimo, soltanto per impartire istruzioni, comunicare i movimenti da compiere. Pastore del piccolo gregge dei nostri corpi, li conduce all’allineamento di mani, piedi, colonne, colli, nuche, addomi: inspirare, espirare. Nel passaggio tra un asana e un altro, ciascuna di noi ha l’agio di ricucire gli strappi se non veri e propri traumi che il proprio essere ha registrato nel tempo recente. Intanto il tappeto sonoro del raga ci accompagna a entrare in questa nuova dimensione, ciascuna di noi al centro di ogni singola nota emessa dal sitar. Tutto questo si conforma all’insorgere dei primi pensieri del mattino, li ovatta, li assiste, li accompagna e infine li fortifica. Ogni nota traghetta il mini gruppo da una posizione all’altra e diffonde la nozione che il corpo è casa e più ancora tempio, Andrei uno dei suoi sacerdoti. Sono passate settimane, mesi, e il mio corpo è cambiato: ha perso peso, si è fatto più agile e potente: ora riesce a flettersi in archi concavi o convessi prima inimmaginabili, le mani riescono a intrecciarsi dietro la schiena, i piedi mi àncorano a terra mentre i palmi delle mani si estendono sempre più in là, con il bacino innalzato nella posizione del cane.

The best, maladiez!” Dritti capelli lisci nero corvino, zigomi larghi e occhi allungati anche quando non elargisce sorrisi, Andrei ha tratti caucasici, asiatici forse – frutto della grande roulette russa dei dislocamenti etnici dei tempi sovietici? Un tajiko nato a Donetsk e con una laurea in legge all’università di Kharkiv? Chi è veramente questo coetaneo? Ora la singola nota avvolgente del sitar aleggia su tutte noi che pazienti manteniamo la posizione. Approdate nella tana del lupo buono, qui, nel centro di Kyiv, in uno spazio minimale ma funzionale, una telecamera di telefonino come occhio di grande sorella (la proprietaria del centro è una di queste splendide trentenni) a registrare tutto per editarlo e sbatterlo su Instagram in modalità gif, a rendere tutto banalmente normale, ma tutte noi ben disposte ad accettarlo e a pagare questa tassa alla modernità.

Ci sono volte in cui le fulminee battute di Andrei mi sfuggono. Non posseggo abbastanza controllo della lingua per decodificare certi sorrisi sui volti delle altre, deve trattarsi di un registro ironico che, ammiccante e lieve, un attraente maschio qui nell’Est Europa dispensa a femmine ancora fertili e fiduciose: un innocuo gioco di società con sue regole e ruoli, in cui tutto è ancora velatamente possibile, e perchè mai non dovrebbe. Riconciliata in partenza con il non senso, in quei momenti mi concedo un rotondo distacco, accolgo tutto mentre ebete sorrido, contigua a un’umanità femminile di fatto aliena: lì rimango a guardare, in compagnia di pensieri collaterali come note a piè di pagina.

Ha mani curate e dita eleganti Andrei, la presa salda di chi pratica da tempo il controllo sul proprio corpo, con ogni muscolo arruolato nella volontà di raggiungere l’armonia del tutto. “Ora bevete acqua ma attente non troppo fredda e a piccoli sorsi”, mi porge un bicchiere di carta già riempito, “spasiba” gli dico sapendo bene che quello è il segnale che prelude al gran finale, all’ultima sequenza, quella più impegnativa. Vado a posare il bicchiere in un angolo del pavimento e torno al mio tappetino (me lo ha regalato lui, in risposta alla mia richiesta di sapere dove poterlo acquistare, e, per compensare, poiché lui non ne ha voluto sapere di essere rimborsato, gli ho regalato una bottiglia di rosso italiano con la scritta “Essere” sull’etichetta). Si comincia: le note si susseguono – increspature più che onde sulla superficie di un mare placido, la terraferma ancora lontana -, i nostri corpi sincronizzati a seguire i movimenti della solida e flessuosa sagoma di Andrei. Con soddisfazione e una punta di stupore sento che il corpo mi sta obbedendo e che non è più come le prime volte che non riuscivo a seguire il ritmo delle altre: ora gambe e braccia eseguono in modo non solo automatico ma anche dignitoso l’intero esercizio. Finalmente sento di essere un’ultracinquantenne in armonia con sè stessa, una happy perennial, potrebbe essere la categoria coniata da un sociologo.

La sessione è terminata e la musica è cambiata, ora siamo in un prato. Andrei ci sta invitando a distenderci supine, a chiudere gli occhi e a rilassare gli arti: il momento del riposo che segue è un tempo che si dilata mentre là fuori tutto può accadere e non ha importanza, almeno per quindici minuti ancora. Facile, facilissimo scivolare oltre la soglia del sonno, e mentre la mente non fa nulla per impedirlo, aspettare con un’ombra di desiderio che Andrei venga a coprirmi e col rito del suo breve massaggio, infondermi energia. Mi ha appena avvolta in un soffice plaid di pile e con ferma dolcezza sta facendo oscillare le mie caviglie, quindi, con un impercettibile tocco finale – una firma d’autore -, le lascia inermi. Il suo passo ovattato si sposta ancora su di me fin quando sento stringermi polsi per poi rilasciarli, quindi comprimermi le anche, in un movimento antico di lento cullare che immagino non avere fine, finché di nuovo avverto quel fugace tocco di commiato che mette fine al flusso di energia. La sua presenza sopra il mio corpo aleggia ancora: per una lunga manciata di secondi e con una pressione via via crescente, mi comprime le spalle verso il materassino: da tempo ho smesso di opporvi resistenza anche solo mentale. Nel momento in cui la pressione viene meno, mi ritrovo a contemplarne l’assenza, rassegnata all’idea che sarà necessaria una nuova sessione per risalire a quello stato di piccola beatitudine.

Il sottofondo audio è stato riassorbito nel silenzio. Andrei ci invita a riassumere la posizione seduta a gambe incrociate e per gradi ci fa riaprire gli occhi e riprendere contatto con la realtà circostante: “bciem spasiba!“. Prima di varcare la porta di ingresso che dà direttamente sulla via, come quando sono arrivata il maestro mi saluta con un caloroso abbraccio, “your body is very good now!“, aggiunge, grata ricambio con un sorriso e saluto anche Sasha, la giovane ed efficiente proprietaria. Uscita in strada, metto gli auricolari, avvio Spotify e riprendo l’ascolto del mattino; lo sguardo mi finisce oltre l’altro lato della strada: là, oltre il muro perimetrale dei giardini botanici, all’interno di un’altissima serra di vetro, respira la leggendaria palma Livingstone di Kyiv, quella che a gennaio, mentre la città giace sotto gelidi strati di neve, torna a esplodere con la sua fioritura, gloriosa e placida nei suoi duecento anni di vita.

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Lies, Lies and More Lies

Photo by Külli Kittus on Unsplash

“Such an honourable man, and so honest…” 

The heroine cracks into a laughter just as I am pouring hot water onto Nescafè Gold powder inside my favourite mug. What will happen now? But it’s already five to two and no time left to indulge in further listening. I switch the podcast off, grab my silenced mobile and mug and get back to my desk. When I cook or have lunch I usually tune in to Radio24 news feed but for a change today I have picked up an audio drama. Fact is Supermario has saved Italy today – he has just sworn in – and everybody’s happy now, the bad thing’s gone away. “Such an honourable man, and so honest…” I find myself wondering and pondering on the endless hide & seek game imagination plays with reality.

For sure, these days I am quite busy at any possible level. Since we have got trapped in the amber of pandemia I have joined the global herds of those who work online. I teach Italian as a foreign language and except for J. who is an American teacher who plans to learn Italian to apply for her Italian citizenship, all my students are Ukrainians. A few of the youngest need the language to apply for Italian universities, most of the elder – except for D. who is a businessman who owns his chain of jewelery shops across the country, N. who describes herself as a latinist and T. who is a bass opera singer – most of them are studying the language for sheer escapism and out of their love for anything Italian.

The task of effectively communicating my language and culture to so many different learners both thrills and challenges me. It certainly forces me to reconsider the way I look at my cultural heritage. Other two of my students take private lessons. The youngest one is six-year-old. I teach her only face-to-face three days a week, actually on daily basis over the past winter holidays, including on the Orthodox Christmas day. She lives in a secluded estate in Koncha-Zaspa, a historic neighbourhood in the Holosiivsky Raion. The area is known for being the place where Ukraine’s political elite live. Located in the Southern part of the city, in the 1920s the territory was the first state preserve in the Ukrainian SSR. A driver comes to pick me up at a midway point between there and my place.

D. is actually already fluent and my task is to play the language guardian and teach her reading and writing, alongside her home schooling process in Ukrainian. Apparently she has learned Italian in two months’ time over her last summer holidays spent in Southern Italy. There, on daily basis, two dedicated teachers alternated in engaging her with la dolce lingua, here back home, cartoon watching has kept her Italian alive, till the arrival of Pani Lucia. In fact, D. is the only one who speaks Italian in her household – “with no accent!” – excitedly informs me her mom who had learned that from her Italian friends who spoke to D. over the phone. Kids her age are sponges, their sinapsis creating immediate connections by the minute, not like mine more and more engaged in their trench warfare against the ghosts of permanent oblivion.

In a way, D. teaches me something too. One day in the garden we were building our snowman and she proved quite skilful. As I congratulated she revealed her secret: “when I was  little my dad taught me how to build them”. Another time, before New Year, we were picking up dry leaves from the ground to decorate a yolka, a christmas tree, already equipped with elegant electric festoons. All along a squirrel had been perching on a branch above our heads, biting nuts and  monitoring our delicate manouvers.  I made her notice that and there she goes, “I know! He is always looking for me!”. It was ages since I felt so light inside, a simple being in a quiet wood, the very place where the tiny mouse dares to venture against all odds, finally succeeding in taming the Gruffalo. D. keeps asking me to read the Italian version of that story again and again, and each time her renewed final surprise takes me by surprise too.

Other minor scenes also stay with me. Some weeks after new year, her parents had flown to Italy and I had arrived a bit earlier than usual. She protested that no, Pani Lucia, we could not start our lesson yet, as busy as she still was overseeing the dismantling of the gigantic yolka placed at the base of the large staircase in the main lobby. I conceded that she continued to supervise the operations for few more minutes and so we went back there following the upstream growing sound of a singing nightingale, its cage placed in a corner of the large lobby. There, two silent service ladies in white cotton gloves were busy unplucking from the yolka – one by one – large red and green blown glass spheres. The whole floor around the tree was scattered with open immaculate cardboard boxes filled with polystyrene: the winter season decoration campaign was officially over and all its delicate armaments were being retrieved back into their peaceful arsenal. We only stayed for a few minutes there but the scene stays with me: her lightly jumping from side to side – she almost dancing – amid the Murano ammunitions, high-pichted notes from a wooden cage filling up the scented air.

Two o’clock, I have got to go now, my online lesson with my other private student is starting. I meet V. offline once a week and twice online. She is thirteen and unlike D. she started from scratch and now, after her thirtieth-something lesson, she has started to articulate basic sentences: I let her be, above all grab what she can from our lessons which she seems to love. In fact it was out of her love for Adriano Celentano that she decided to learn Italian. She knows all his songs by heart and despite I have been proposing her Jovanotti and other more recent singers, she persists. For her birthday, amid a number of presents she had received, she showed me her favourite one: a life-size silhouette of Adriano Celentano handing out a red rose in his half-romantic smile. Last week she came to my house for a free lesson where I taught her how to prepare Carneval sweets which afterwards she would bring home. “Lies, lies and more lies! Lies are so yummy!” Yes, these Carneval sweets we call bugie, lies in English. 

Now, really, I have to go.

Checkpoint Childhood

In my grandparents’ garden there was and still is, now diminished in size by my fiftyfive-year-old glance, an artificial hill called La montagnola. Towering trees patrol the surrounding gardens while thick bushes keep secret the path that spirals up along minimal flanks and leads to a clearing the size of a rocking horses carousel. Up there would we lay down in lazy summertime afternoons, bird singing and insect humming in our ears. Cast beyond the tree crowns, our glances could meet clouds playing hide & seek with sun or get stranded. An exercise I most liked was keeping my eyes wide shut and imagining myself dead. Wasn’t falling asleep a daily exercise in dying?

La montagnola had existed long before us kids as well as our grandparents. It is part of the estate they had bought in the early Thirties, together with a garden – its monumental weeping mulberry, orderly and colourful flower beds, neat gravel sidewalks, round goldfish tank whose wrought iron fence would later try to protect its dwellers from our raids.

My grandparents were country people. They both sprang from small landowner families, mostly uneducated farmers. Their catholic imprinting shaped their life vision, developing in them a keen sense of resilience and self-denial. My grandpa Gino, the eldest of five siblings, was the only one who receive higher education to obtain an agronomist diploma. It did not take long before he got hired as administrator by landed gentry residing in Rome and Milan and possessing estates in the Marches. Farm production cycles established my grandparents’ family agenda. Their life rhythms soon tuned in with rural cycles: wheat harvesting, threshing, plowing, wine harvesting along with the silkworm breeding activity she had inherited. In time land ownership and proper education would become a priority in their family project, assuring their two girls – my aunt and my mother – economic ease and cultural equipment for a better life. Harvest after harvest, savings had been put aside till opportunity had arisen and investments made both in land and higher education, because “money makes us rich but education makes us noble”, read a ceramic plate hanging on my grandmother’s dining room, for anyone to know.

Nonna Augusta had attended formal education till somewhere near to a middle school diploma. Since a very young age she had loved reading and writing poetry. After a lifetime spent jotting down verses, at seventy-five she indulged in having a selection of her poems self-published. How many times visiting them already as an old couple, would we see nonno Gino in his snow-white apron meticulously setting the table while smiling to us “hush… the poetess is composing”. To this day, her poems collected in I silenzi del cuore (Silences of the heart) keep their healing power. Nonno Gino‘s memory also stays with me. As his employers grew older, new generations stepped in but many of them lacked sense of commitment and ethics. Those were la dolce vita days. My grandfather’s advice became more and more crucial for most of his younger employers. In retrospect, I can see him as a typical representative of the emerging middle class: purposeful and vigilant, with his mixture of popular wisdom and professionalism, he had made his small contribution to the so-called Italian economic miracle.

Back in the Seventies we were just kids busy in their clandestine fishing at the goldfish pond, creating our complicated parallel worlds beneath the mulberry cathedral or just playing hide & seek across all nooks and corners of the big garden.  A suspicion that things did prove more complicated than we assumed must have flashed on us the day our grand-grandma Olimpia passed away. We sensed that an action was needed and we came up with the idea of an impromptu funeral to be held in the big room on the ground floor of the old house. Keeping a central corridor in the middle, chairs were arranged like pews facing the altar/ dining table. There, Lillo solemny bestowed on us a funeral service in memory of nonna Pimpa, with my brother – older than Livio but less ambitious – playing the altar boy. Curiously enough did we later learned that the very room we had staged our religious rite in, had actually served as an official temporary place of worship after the big earthquake in 1930 had hit the nearby parish church: a white stone plaque sporting the Holy See coat of arms placed onto the house external wall keeps memory to these days.

We were not living in the same house. Our three cousins stayed with our grandparents in the old house. The three of us – our youngest brother would arrive many years later – spent their holidays in the new building, a three-storey house built on an adjoining plot of land. La Montagnola marked a no-man’s land between the two gardens. In fact, the place that we most valued was la grotta. To us the dark and damp grotto at the very foundations of the hill proved the most mysterious and thrilling part of the whole garden. That silent barrel vault space that in very old days had served as cellar and storage room, was kept off limits from us all – adults and children – by a heavy rusted padlock tightened to iron gratings. In fact, once did we venture inside there in candlelight accompanied by our cousins’ father.

Zio Elvio had a limp lag and curiosity for anything local and historical, no wonder he was a history teacher. He spent long hours collecting old keys, stamps and any kind of exotic items. He was also very creative and loved experimenting with sculpture but even more with drawing. He created series of countryside o seaside landscapes especially with crayons. The last time I saw him in his studio he was ninety-two. He was still as curious as ever and his ritual of allowing you to pick up and take away one or two pieces amid his miniature landscapes was still in place. I reckon now the magic of those moments, with him so silently proud of sharing fragments of his imaginary world. Since we were very little he had been entertaining us all with stories he would make up or read, or playing us songs on his mangiadischi – a portable 45 rpm record player -, like Enzo Jannacci’s Vengo anchio! or Cochi e Renato’s  La vita l’è bella.

The grotto had left in our nostrils a sniff of humidity and a sense of sweet gratefulness for our adult guide. Meantime, our father had always been up in the sky if not in heaven. As hard as I try to find him at any point in those long summertime days spent in my granparents’ garden, I just cannot: he would always be somewhere else – flying in the sky, travelling abroad on a mission, sailing to Croatia with friends, riding his flamboyant motorbike. Summer days would pile up with sunny mornings spent mostly at the beach which was located just five minutes’ walk across the street, and afternoons spent playing around the two neighbouring gardens. We would move back and forth between the old house and the new one via il cancelletto, a small green iron gateway marking the border between two sovereignties as much as educational visions. It was a checkpoint of sorts where universal family rules applied: it kept closed during siesta time, with each family expecting their kids either to take a nap or read Topolino or books, or just get bored for the sake of it. Truth is many breaches daily occurred at the cancelletto, with boys often venturing across each other’s zones, and us girls preferring idle chatting by the gate. 

At official playtime a number of different games kept us busy – we most liked to play the grand hotel, the bar, organise theatre shows, arrange bazars. In fact, set aside the before-mentioned totally self-run funeral service, all such games required a degree of planning and an active contribution from adults: in a way or another, sooner or later, all of them – except for our flying father – had contributed or at least showed up. Adults’ life was indeed a major source of inspiration for most of our creative games. Like the time we created a performance using the grotto gate as a backdrop, with us wearing our parents’ apparel. My born-actress sister Lalla co-starred with born-actor cousin Lillo whose nickname up today is Bruce Willis. And here comes the memo to write about lingerie, because not only was I the playwright but also the prop master and from my mom’s drawer I had the chance to pick up one of her fanciest transparent babydoll ever, for my sister to wear in the opening scene.

The production process had kept us busy for a whole weekend, also due to the continuous hysterical scenes from my cousin Giovanna who could not get along with the idea that she – despite her being the cutest of us three – was not fit for the role. We had to work quite hard with my eldest brother, the best ever problem solver for all technical aspects, but the small crew finally made it. I cannot tell for sure how many years have passed by since that Sunday afternoon but I can still flavour the thrill and the sense of gratefulness we had when our spectators finally began to flock in, sharp on time, complying with the advertising poster Lorenzo, the youngest and the most intellectual of us all, had drawn.  After having duly paid their tickets, spectators silently took their seats on the heavy and uncomfortable iron garden chairs. In fact, they turned out to be only three of them – nonna Augusta, nonno Gino and zio Elvio but their final applause convinced us that everything had been worth while.

Muschio selvaggio

Quanti litri di sudore ancora prima di arrivare lassù? Perché se sempre meno centimetri separavano le sue dita dall’anello, ci sarebbero voluti altri mesi di lavoro prima di riuscire a piazzare la mano ancora più in alto e assestare la prima schiacciata della sua vita. Per la vocina che lo spronava a non mollare l’estasi sarebbe arrivata in un momento preciso: soltanto dopo esser rimasto appeso al ring anche se per un nanosecondo e a rischio di far venire giù tutto, quando finalmente avrebbe potuto emettere il grido bestiale battendosi i pugni sul petto, nella fetida jungla della palestra di scuola.

A sedici anni, perché no, poteva ancora nutrire qualche ragionevole speranza di aggiungere un’altra manciata di centimetri alla sua altezza definitiva a maggior gloria della sua carriera di point guard. Anche se tutto fosse stato già scritto nei geni – le lezioni di biologia lo stavano mettendo in guardia in modo secco e inequivocabile – forse, nel mezzo della grande confusione che certamente regnava nel suo patrimonio genetico, il dibattito poteva ancora ritenersi aperto. Forse tessuti ossei corroborati da una dieta iperproteica avrebbero finito per ribellarsi e disobbedire all’ordine di attenersi alla statura media paterna. Forse un aiuto gli sarebbe venuto dal passato. Più volte aveva sentito dire che, in quanto a statura, in entrambi i rami familiari i nonni si erano saputi difendere, immaginari campioni di “palla al cesto”, come Wikipedia battezzava la pallacanestro degli esordi italiani.

A rendere tutto molto più complicato, da un mese ci si era messo anche un parassita. Seicento volte più piccolo del diametro di un capello, aveva costretto non soltanto lui e la sua famiglia ma milioni di cittadini di tutto il mondo a rimanere reclusi dentro le proprie abitazioni per evitare di venirne contagiati. Un ammasso minimo di RNA, il parassita aveva dimostrato di avere doti atletiche. In un dato giorno dell’inverno appena trascorso aveva compiuto un mega salto, passando dalla carne di un pipistrello a quella di un ignaro signore cinese. Senza nemmeno sapere che cosa fosse il male, la particella infettiva aveva cominciato a moltiplicarsi diffondendosi da individuo a individuo e a distribuire morte con la stessa logica di una roulette russa.

Nei laboratori di ricerca di tutto il mondo gli scienziati avevano aperto una colossale battuta di caccia per ricostruire l’identikit del malfattore e congegnare il vaccino che l’avrebbe messo in scacco, nel frattempo però, in ospedali sempre più affollati – come quelli della sua Lombardia -, la gente continuava a cadere come birilli. Nelle immagini che inondavano la rete – dalle pagine social a quelle giornalistiche – Milano appariva ormai una città fantasma e collocare i ricordi della sua infanzia felice in quelle strade ora deprivate di qualsiasi traccia di vita, gli provocava fitte di malinconia. A distrarlo da pensieri tristi ci pensava il fidato smartphone che continuava a ricevere notifiche come se nulla fosse mai cambiato.

A volte, prima di addormentarsi, era anche arrivato a immaginare che quella non fosse una nuova realtà ma pura finzione, l’ennesima trama apocalittica proposta da Netflix nella sezione “Nuovi Arrivi”. Forse, dopo una necessaria se massiccia dose di binge watching, la sua vita sarebbe tornata a scorrere dolce e libera esattamente come prima, lui soltanto un po’ più frastornato e affamato d’aria del normale, complice di nuovo di risate con gli amici e di baci con la sua bella Masha. Forse era soltanto un brutto sogno dal quale si sarebbe risvegliato non appena la città si fosse riattivata alle prime luci del nuovo giorno. L’orologio però continuava a non dare segni di rinsavimento, spingendo l’arrivo di quella nuova alba sempre più in là. 

Giorno dopo giorno, le sue uniche certezze erano diventate tutte le privazioni che aveva dovuto sperimentare. Aveva dovuto dire addio agli allenamenti quattro volte a settimana – di cui uno con sveglia alle cinque e mezza del mattino, prima dell’inizio delle lezioni -,  al campionato e all’attesissimo torneo CEESA a Istanbul. Gli era stata cancellata anche la gita di fine anno, con inconsapevole ironia denominata Week Without Walls. Il punto era che proprio mentre stava cominciando a scoprirlo e a trovarlo molto stimolante, il mondo esterno aveva smesso di accoglierlo. Non solo: con brusca battuta d’arresto, lo invitava anche a indossare mascherina e guanti e a rispettare la debita distanza dagli altri, semmai avesse avuto la necessità di uscire di casa.

Ora tutto, proprio tutto, avveniva all’interno del perimetro del suo appartamento e ancora più spesso, dentro la sua stanza: le lezioni di scuola, le sessioni di allenamento, gli scambi col fratello, Masha e gli amici – il tutto via snapchat o attraverso i giochi alla playstation -, attività quest’ultima troppo spesso ostacolata dai suoi. E come gli mancava anche il suo Bro, che le musical chairs del caso avevano assegnato a tutt’altra scena, all’interno di una residenza universitaria lontana 3119 chilometri da Kiev. Come sarebbe stato più sopportabile se almeno avessero potuto condividere il canestrino artigianale che papà era riuscito a costruirgli in camera, al termine di una lunga e memorabile sessione di progettazione e costruzione congiunta. Si sarebbero battuti fino allo sfinimento in interminabili sessioni di fulmine o knockout, magari poi postando qualche demenziale storia su snapchat. Di certo, alla fine non si sarebbero nemmeno più accorti che invece di essere sotto il canestro della palestra si trovavano sotto un trespolo di legno tenuto stabile con quattro bottiglioni d’acqua da cinque litri. C’erano però altri momenti in cui quasi era contento che fossero così lontani l’uno dall’altro, ciascuno padrone dei propri spazi e libero di sperimentare le sfide di questa nuova solitudine a modo proprio. 

Nonostante la sua attività motoria fosse ridotta al minimo – ormai non metteva il naso fuori di casa da settimane, nemmeno per andare a buttare il pattume – e l’offerta di cibo non mancasse – cucinare era divenuto per i suoi uno degli sfoghi principali – la sua armoniosa corporatura continuava a fiorire, come era giusto che fosse in quella stagione della vita. Con regolarità usava gli attrezzi da palestra che grazie all’insistenza del fratello in casa certo non mancavano. Qualche anno addietro, quando abitavano ancora in un’altra capitale, tutta la famiglia era andata in missione da Decathlon per procedere all’acquisto di un set di pesi, un bilanciere e una panca. Chi avrebbe mai immaginato che un giorno quell’attrezzatura da palestra avrebbe contribuito in modo decisivo a tenere alto il livello delle sue endorfine ai tempi del lockdown? Quanti quesiti come questo non smettevano di scoppiettare nella sua mente e, in un certo senso, a tenergli compagnia.

Quando non era utilizzato dai suoi, Netflix era uno dei diversivi. Finita la quarta serie di Casa de Papel, la canzone Bella Ciao gli era così entrata in testa che prese in mano la chitarra del fratello e – con l’aiuto dei tutorial di YouTube – provò e riprovò, fin quando il pezzo uscì dallo strumento vittorioso. In fondo, anche se non gli permettevano di passare troppe ore alla playstation, in quello strumento made in Spain, bottino di un’altra mitica spedizione familiare in uno storico negozio di chitarre di Milano, aveva trovato un confidente sensibile e pronto a elaborare i suoi pensieri in presa diretta.

Ascoltare i propri pensieri mentre prendevano forma era una sensazione curiosa e, a essere onesto, gli infondeva un coraggio nuovo. Su consiglio del fratello si era iscritto al canale di Fedez “Muschio Selvaggio” e – tra un compito di scuola e una strimpellata alla chitarra – lasciava che la strana coppia del rapper e l’influencer Luis, gli facesse incontrare una carrellata di individui, alcuni da ascoltare fino all’ultima parola. Anche QUESTA era cultura, cara mamma, rispondeva mentalmente alla genitrice che non perdeva occasione per stalkerare lui e il fratello con l’invio di “un link interessante”. Come un disco rotto, sparava che quella pausa forzata era un’opportunità da cogliere per guardarsi un po’ dentro. Parlava LEI, così capace di concentrazione che con regolarità impressionante riusciva a smarrire lo smartphone tra le mura di casa almeno una volta al giorno.

Era comunque grato, quasi felice di trascorrere gli strani giorni del suo primo lockdown in compagnia dei suoi. Ancora un paio di anni e sarebbe toccata anche a lui, emettere il grido bestiale, pugni al petto, finalmente pronto a entrare nella fetida jungla della vita là fuori, con o senza mascherina.

Salon Krasi, grammatiche della pelle

Complice la genetica mediterranea, continuava la mia ricerca del salon krasi, salone di bellezza, in grado di ripristinare ordine sulla mia criniera. Sebbene spesso lunghi, i capelli delle donne qui a Kiev appaiono finissimi e quindi docili, gli basta un refolo per scomporsi e un istante per riallinearsi. In schiacciante minoranza la mia impalcatura leonina, una testa così poco ben fatta che un giorno sono stata sul punto di sferrare una zampata alla ragazza che continuava a girarmi intorno senza prendere una decisione. “E scegline una di queste spazzole e comincia!” Dentro sentivo il ruggito salire e stavo per piantare tutto lì, la massa di capelli ancora bagnata, non fosse stata la temperatura esterna troppo proibitiva.

Quante volte ho inviato un pensiero commosso ai miei parrucchieri coraggiosi di Milano, al Mario di corso Garibaldi o al Claudio di via Porpora. Sempre accoglienti, sorridenti e soprattutto stuzzicati dalla sfida professionale che la mia chioma rinnovava per loro ogni volta – “Questa massa farebbe la felicità di due clienti normali!” – amavano la sfida e a forza di sforbiciate ristabilivano l’armonia e soprattutto compivano l’eroica missione di farmi uscire dal negozio, mezza giornata più tardi, una donna felice, riconciliata con la propria identità femminile. Non loro soltanto: arrivo a pensare che persino “Un’idea in testa”, il piccolo salone sotto casa in città studi, dove l’anziana titolare quel pomeriggio pensò a lungo prima di accettare di farmi la piega – “ho una forte sciatalgia alla spalla destra…” -, avrebbe vinto il confronto con i pigri parrucchieri di Kiev.

Non soltanto la gestione dei capelli ma anche altre manovre quotidiane di piccolo cabotaggio come manicure, pedicure e depilazione potevano generare effimeri ma intimi turbamenti qualora non mi fossi sintonizzata sulla diversa grammatica del luogo. Prendi per esempio il manicure, perché nemmeno qui le mie aspettative erano in linea con quelle delle altre clienti, ispirate a una grammatica del desiderio lontana dalla mia. Cerco di spiegarmi. In un manuale di grammatica russa o ucraina – e questa volta le due lingue slave appaiono solidali – spicca la distinzione essenziale tra verbi perfettivi e imperfettivi, gli uni concentrati sul risultato, gli altri impegnati a descrivere un processo. Nella mia mente immaginifica il manicure e il pedicure a Kiev erano eseguiti secondo la logica di risultato dei verbi perfettivi: uscite dal salon krasi le mani dovevano esibire unghie impeccabili, laccate secondo una palette technicolor che poteva spaziare da un total black a un oro o argento, con o senza luccichii. Mi sembrava ormai evidente che il focus non cadesse mai sul processo – né sull’approfondita rimozione delle cuticole (processo qui definito con un certo grado di sopportazione “all’europea”, con svogliato impiego di acqua e applicazione di crema anticuticole), né soprattutto sulla tecnica di sterilizzazione degli arnesi impiegati. A colpi di fresa e applicazioni di gel, anche l’unghia più morsicata poteva diventare turgida e bombata. In definitiva, negli innumerevoli salon krasi che puntellavano ogni via di qualsiasi quartiere di Kiev, il desiderio ultimo condiviso rimaneva il medesimo: avere mani da principessa. Provai gratitudine verso i manuali che mi avevano svelato le radici del senso di frustrazione che mi aveva sempre accompagnata a ogni appuntamento in un salon e che soprattutto avevano dato un senso alla mia quest del centro estetico dotato di sterilizzazione in autoclave.

Lo stesso schema interpretativo potevo applicarlo anche alle altre pratiche estetiche, come per esempio alla depilazione. Anche su questo fronte si consumava una drammatica distanza culturale tra DNA autoctono e mediterraneo. E a tale proposito, mi rimane tuttora assai caro il ricordo della prassi incontrata nell’ultimo viaggio che ho potuto compiere, a Barcellona. Qui, nei centri estetici il servizio di depilazione è così tanto utilizzato che non sono richiesti appuntamenti: è sufficiente presentarsi, prendere il numero e aspettare il proprio turno: primera llegada, primera servida! Alla latitudine di Kiev la depilazione rimaneva invece una pratica a bassa intensità e ancor minor livello di standardizzazione. Era così che, in risposta alla medesima domanda di semplice ceretta, mi potevo imbattere in offerte che appartenevano ai più diversi capricci interpretativi. Ricordo due esperienze agli antipodi. In un primo centro estetico sono stata sottoposta a un trattamento lussurioso, in un altro il mio corpo ha vissuto un’esperienza metafisica. Da Kika, la cabina in cui fui sottoposta a ceretta totale consisteva nel diorama di una garçonnière. In linea con lo spirito del luogo, l’addetta non aveva perso tempo nell’indicarmi il divanetto in stile Luigi XIV su cui riporre gli indumenti, senza peraltro dispensare alcuno string di cortesia, ritenuto orpello inutile. Alla fine della seduta, la mia immagine allo specchio era stata trasformata al punto da non avere nulla da invidiare alla categoria marziana delle MILF. L’efficienza dell’addetta, l’esecuzione di gesti sapienti – dall’applicazione al successivo strappo di ciascuno dei profumati strati di cera, compreso il massaggio ricapitolativo finale – avevano quasi prodotto in me la convinzione che sì, Kika aveva fatto di me un’altra donna, almeno per una manciata di ore.

Altro salone, altre sensazioni. A pochi isolati di distanza dall’altro, nel salone di M il design era moderno e prometteva eleganza ed efficienza milanese, l’addetta che si sarebbe presa cura della mia ceretta era tuttavia un elemento spurio, con più punti di contatto con una babushka che con l’immagine della giovane professionista di settore. In effetti, deve essermi stata coetanea, che a diventare nonna qua è un attimo, basta cominciare a figliare a diciotto anni. Chignon troppo alto e make up un tanto al chilo, aveva impiegato minuti infiniti per mettermi e togliermi ogni striscia di cera, a ogni strappo riuscendo a infliggermi uno sproporzionato seppur minimo grado di sofferenza. Più che la percezione di dosi omeopatiche di dolore fisico, c’era quella di un retro pensiero impartito: “questo lusso individuale noi donne normali ce lo sogniamo”. L’estenuante lentezza con cui veniva eseguito il trattamento, prevedeva, alla fine di ogni strappo, lo spruzzo di dosi minime di un solvente a base di olio, poi distribuito con una pezza di tela bianca sulla zona di pelle trattata. Nell’interminabile sessione depilatoria trascorsa nelle mani della compagna estetista, la mia identità si era andata sempre più confondendo con quella di una statuetta di porcellana di fattura sovietica, copia identica a quelle disposte in bella mostra all’interno delle vetrine del museo di Storia dell’Ucraina, o più prosaicamente assimilabile a quelle che i venditori ambulanti di Petrivka disponevano la domenica mattina, con grande cura al centro dei loro teli distesi a terra.

“Che cos’è successo ai tuoi capelli?” chiedeva lui divertito a sera, quando rientrava dalla sua giornata di lavoro, “com’è andata la tua giornata?” preferivo rispondergli, con un misto di autocommiserazione e ironico tentativo di diversificazione periferica. Questo succedeva prima della quarantena, cioè prima che l’emergenza covid-19 facesse la sua silenziosa apparizione nelle vite di tutti noi, incurante delle grammatiche di appartenenza. Ora che la personale quest per il parrucchiere domatore e il salon krasi dotato di sterilizzazione in autoclave è stata sospesa causa forza maggiore, ogni trattamento è divenuto fai-da-te, soprattutto lo studio delle grammatiche russa e ucraina è tornato a essere meno surreale.

Le cose senza di noi

E ora qui ci sei tu, davanti a me mentre mangio un poetico panino imbottito con rucola, prosciutto e scaglie di parmigiano. Un pasto dignitoso dopo giorni di lavoro cinese. Le tue nevi del Kilimangiaro. Sono scassata, smontata e appena sopravvissuta a una settimana di trambusto domestico. Le tue placide distese bianche, caro Monte Rosa, mi sorridono e tutta la stanchezza mi fai sciogliere via. Torno a sorridere. Ci fissiamo, io col mio panino e bottiglietta Panna, tu, col tuo magnetismo ancestrale, appena oltre questa vetrata dell’aeroporto Malpensa. Poi saluto lei, che a trecento chilometri più a sud vive come una conchiglia attaccata al suo scoglio. La sua voce familiare mi raggiunge sempre, onde nell’orecchio della malinconia.

Ho chiuso la nostra casa milanese per la penultima volta. La sua vecchia vita ha i giorni contati, ancora una settimana e sarà data in pasto ad avventori occasionali, gente che pagherà per dormirci comoda e farci docce calde e cucinarci qualcosa al volo, tra una visita a un museo e a una galleria d’arte. Con lucida visione la nostra quotidianità di un tempo è stata vivisezionata e dalla sua carne sono nate due unità separate che profumano di nuovo e di non luogo. Quante e soprattutto quali altre storie si accavalleranno tra le pareti alzate sopra le ceneri della cittadella domestica? Quali destini, quali lingue, quali pensieri e tribolazioni e ambizioni e promesse elettrizzanti conterranno quelle nuove stanze? Mia vecchia cara montagna, non è questa un’altra piccola vittoria delle cose senza di noi, che, con perfette regole di ingaggio, svuotano per riempire daccapo cassetti di destini altrui?

Le stanze che hanno registrato (l’avranno poi fatto davvero?) silenzi, risate, pianti e grida, hanno perso ogni eco: gusci vuoti fingeranno di servire altri abitanti. Arrivederci, Monte Rosa. Anche tu, dopo il decollo, ti farai sempre più insignificante, fino a soccombere, oltre la linea dell’orizzonte.

Squash Me Tender

Photo by Lucia Massacesi

I’m feeling pretty good as of now 
I’m not so sure when I got here and how 
Sun melt in the fake smile away 
I think you know I’ll be ok 

Eels, Grace Kelly Blues

Al sabato mattino ciascuno di noi prenota un campo attorno alla stessa ora. Dopo le partite a due scatta l’invasione dell’ultimo campo ancora disponibile. Uno dopo l’altro, fino anche a otto giocatori, scorriamo lungo la parete di vetro del fondo, e subito hanno inizio i mini match a due sui tre quarti del campo. Chi perde lo scambio lascia spazio allo sfidante successivo e avanti così, finché i migliori non si assestano per lunghi divertentissimi minuti. Fra tutti sono quella che entra ed esce dal gioco nel modo più fulminante: il tempo di una battuta, di eseguire uno, due, al massimo tre scambi, e mi ritrovo incollata al vetro di fondo campo, tramortito pesce d’acquario, nella testa il solito mantra “sarai più fortunata”.

L’effetto silenzio dell’acquario qui però non si applica. Alcuni di noi sono tanto chiassosi da trasformarsi in fastidiose insidie per i concentratissimi giocatori dei campi attigui. Infine, anche per il nostro gruppo di pazzi arriva il momento di riporre le racchette. Saliamo tutti al piano superiore, appuntamento nella stanzetta di legno della sauna. Neanche qui si rinuncia a parlare ma ora tutto avviene in modo più rilassato. Addirittura, quando un volontario tra noi si alza per andare ad aggiungere acqua sulle pietre roventi, nessuno dice più nulla e ciascuno rimane a tu per tu coi propri pensieri, colto in un delicato frame del nostro limbo di mezza età, ciascuno nel tentativo di smaltire col sudore, goccia dopo goccia, il proprio carico di veleni settimanali. Quando usciamo dal cubicolo di legno, la rinascita c’è stata o non c’è stata, femmine e maschi ci fiondiamo nei rispettivi spogliatoi. Doccia fredda per le audaci e a seguire la fase che per noi donne tende a infinito, la vestizione. Il tempo dell’asciugatura capelli scorre tutt’uno con quello del chiacchiericcio scanzonato e a tratti assolutorio, segue il malinconico riassemblaggio delle parti, coronato da quello del maquillage davanti all’impietoso specchio delle nostre brame. Intanto i maschi sono già ringalluzziti e pronti al piano terra. Coi visi ossigenati e perfino paonazzi dopo la sauna, sono allegri bambini in gita che tonneggiano attorno all’alto tavolo con contorno di sgabelli Ikea, dove si allestisce il rito del mega aperitivo. Sebbene nulla abbia a che vedere con quello rotondo e mitico dei cavalieri arturiani, ne conserva minime tracce. Tonneggiano attorno rilassati e ipotizzano quantità epiche di pinte di birra da ordinare a Jessy. Ciascuno rivela un’attitudine e uno scopo:  c’è chi si intrattiene pigro sulle pagine rosa della gazzetta dello sport, chi è colto da fervore organizzativo – o forse soltanto da un attacco acuto di fame – e in un baleno dispone sul lazy susan un tripudio di patatine, olive di dimensioni e colorazioni varie, a sorpresa anche ripiene, chi concentrato estrae da confezioni sigillate mozzarelline ancora fresche di frigo. Nè mancano all’appello i grissini artigianali, perché l’immaginario gastronomico di questi quaranta-cinquantenni ricapitola un più recondito menù di desideri. Ancora una sequenza di minuti e anche l’arrivo delle compagne di gioco si materializza nell’aria: lo annunciano il cocktail delle profumazioni dei loro corpi rilassati e soprattutto la polifonia di gridolini assortiti e risate spensierate. E’ un tranquillo sabato mattina milanese e per un paio d’ore il mondo là fuori può andare avanti senza di noi.

Give the Ball a Chance

Regola n.1 Guarda la pallina, non perderla mai di vista

Quando occupi una posizione in campo dietro al tuo avversario è facile vedere ciò che sta facendo, ma quando sei tu davanti devi voltarti e seguire la traiettoria di ogni tuo colpo. Solo in questa maniera si potranno capire i colpi dell’avversario.

Perdo sempre la partita perché non seguo la pallina con lo sguardo. Tutti migliorano e salgono di varie posizioni nella lunchtime league del Polisquash eccetto me, che continuo a occupare la vischiosa parte bassa della classifica. Di qui sono passati tutti, per salir su, chi prima, chi dopo, agli onori della parte superiore della tabella e come una monella di scuola materna nella calca di un distratto pubblico adulto, li osservo lassù, maturi proprietari dei movimenti giusti, ciascuno proveniente da qualche travagliata storia personale ma infine vincente, meritevole di una forma di rispetto a cui non ho animo di ambire. Tutto questo perché non mi concentro sulla pallina e d’altronde lei non aspetta me: se ne schizza via per la sua, taglia l’aria del campo ed è capace di lasciare anche tracce dolorose, se mi trova di mezzo. Perché, mai scherzare con la pallina da squash, massimo rispetto per i suoi poteri pressoché illimitati. Eppure ci sarà un momento in cui diventeremo alleate, se non simbiotiche, e assieme sprigioneremo quel suono giusto e rotondo che acquista il colpo eseguito alla perfezione. Perché, a differenza degli altri giocatori che puntano al profitto domestico della vittoria, io mi attardo alla ricerca del movimento perfetto, rimandando l’incontro col qui e ora, nonostante la saggezza che l’età mi assegna. Intanto, nella vita come nello squash, il gioco va avanti e le regole le detta il caso, che  ti sposta a suo piacimento da una parte all’altra del ristretto quadrato di gioco. Adattamenti continui alle circostanze, imprevisti che si sommano e imprimono una direzione sempre diversa agli affanni del giorno, questo è anche il balletto impossibile dello squash, questo il motivo per cui continuo a perdere ogni singola partita, nonostante le lezioni di Duncan. Quanti i colpi sbagliati e le sconfitte accumulate nelle stagioni che passano, con Duncan che scommette una birra su ogni serie di esercizi assegnata, mezz’ora di lezione dopo mezz’ora di lezione. Cliente perfetta per questa prodigiosa canaglia sbarcata a Milano da Londra. Duncan, che ha compiuto l’impresa più memorabile della sua vita – attraversare a nuoto il Canale della Manica – il mattino in cui dall’altra parte dell’Atlantico le torri gemelle crollavano e io, ancora del tutto all’oscuro delle arti dello squash, giocavo solo a fare la mamma. Duncan, che alza la pinta di birra e brinda, “Lucia, give the ball a chance.”

Pelle d’asino

L’ombelico ormai non esiste più, la pelle del pancione è tesa al massimo. Lì sotto c’è lui che sta costruendo sè stesso, accumulando grammi di identità e nuotando le acque dense di una piscina primordiale. Gambine che scalciano o puntano senza complimenti contro pareti già troppo tolleranti. Ed è tutto vero: nulla delle immaginarie sbirciate di profilo davanti allo specchio con la pancia all’infuori per vedere come appari quando sei incinta; ora lo sei davvero e lui sta crescendo di te e presto da te uscirà per iniziare la sua corsa. Le ore più belle del giorno sono quelle trascorse a leggere , la mano spalmata sulla pancia per non perdere il contatto – starà sognando, starà giocando, terrà il pollice in bocca, riderà? Nel ripiano superiore dell’armadio c’è una grossa scatola di cartone blu dove campeggia la scritta bianca GAP. Dentro, avvolti in fogli di velina bianca, hai messo i primi costumi di scena con cui presentarlo al mondo – tutine a righe verdi, braghette di cotone blu, un cappellino bianco di lino.

Diciotto anni fa ho rischiato di perderti per sempre. Colpa di un istinto materno difettoso o di una lenta reazione al cambiamento. Quante manovre sbagliate ho accumulato prima di capire che concepire un figlio non equivale a ospitare qualcuno in un recesso del proprio corpo mentre fuori indossi il costume di sempre. No, la geografia del corpo cambia e i confini si espandono: la vecchia pelle non basta più a coprirlo tutto e in alcuni punti l’anima rimane nuda. Tu, cocciuto sin da subito, me lo hai fatto capire nel modo più spietato. 

Ho perso sangue come un animale ferito. Era la prima gravidanza e non sapevo che questo succede quando c’è una minaccia d’aborto; ho lasciato passare parecchi minuti prima di riconoscere che avevo bisogno d’aiuto. Presto è subentrato il senso di responsabilità che subito ha istruito il processo alle azioni sbagliate, trovandomi colpevole di molti reati. Avevo continuato a lavorare, prendere treni, aerei e un auto fino nel Nord della Germania. Il colpo di grazia però te l’avevo dato a Natale in montagna, quando non ho saputo dire di no a quella lunga camminata nella neve fresca alta fino alle ginocchia. Conficcavo un piede dopo l’altro nella coltre immacolata bevendo quell’aria profumata anche per te, convinta di fartene il primo grande dono di tanti altri a venire. E che a scricchiolare fossero soltanto i passi e non anche qualcosa nei caldi tessuti del ventre, il laboratorio dove il tuo essere era in costruzione.

“Ora devi stare ferma”: al telefono il tono perentorio del ginecologo ha trafitto la mia coscienza, “rimani in riposo assoluto e prendi queste pasticche ogni giorno.” Per due mesi sono rimasta acquattata a letto.

Quando ti abbiamo visto nell’ecografia, come eri già potente nella tua minuscola fragilità, al centro di una scena da cinema muto: un cuoricino pulsante in bianco e nero e in assenza di audio. Il tempo anestetizza i ricordi e per ritrovare il papà e me, giovane coppia, devo scavare più sotto: eccoci là, spettatori paralizzati di fronte al mistero di una vita che sta lottando per divenire.

Subito dopo la nascita ti hanno avvolto in una copertina termica e ti hanno sistemato su di un fasciatoio arancione. Non ricordo alcun suono né il tuo primo vagito, soltanto il modo prodigioso e malinconico in cui hai cominciato a occupare il tuo spazio nel mondo. E, il giorno successivo, il nostro primo appuntamento. 

Nell’istante in cui l’infermiera ti ha estratto dal carrello pullulante di neonati disperati, il tuo pianto è giunto dritto a me, ben staccato da tutti gli altri: la tua voce, per sempre. Con cauta incredulità ho incominciato ad attaccarti al seno e a passarti il mio pochissimo latte. Bambina che gioca alla mamma, ti ho posto al centro del letto per osservarti: dormivi placido, avvolto nella tua tutina di ciniglia azzurra. “Ora chiudo gli occhi, li riapro e avrai già diciott’anni. Come sarai? Ho fretta di conoscerti.”

La risposta ora è qui: tu e io parliamo, sei un adolescente e quando i tuoi occhi si accendono in un sorriso, è  l’ennesimo segno di vittoria. Come allora però ti vedo in bilico. Crescendo sei divenuto uno splendido asino. A scuola vai senza curarti di studiare e non ti lasci convincere dalle parole dei professori. Ti tieni a distanza da qualsiasi libro che mi ostini a proporti. Sei convinto di sapere già tutto oppure che nulla valga la pena scoprire. Ora sei tu il cantiere di te stesso, questo hai cominciato a sospettare e anche a temere. Fabbricare sogni è il mestiere di un adolescente: vuoi diventare un campione di basket ma è soltanto un sogno e tu lo sai. Chissà quali pensieri ti attraversano mentre digiti fulmineo i tasti dello smartphone, quali paure, e come non vederti ancora come quel pesciolino palpitante sospeso tra la vita e il buio anecogeno. Hai un fisico armonioso e un profilo da filosofo, sebbene forse non sai nemmeno chi fossero questi filosofi dell’antica Grecia. A volte i tuoi pensieri mi colpiscono come i calci di un asino, dolorosi ma vitali: è la tua energia interiore che cerca una via, una vocazione. O un sorriso di incoraggiamento che non so donarti.

Un mattino hai cambiato pelle e tutto è stato diverso. Hai scritto una lettera al preside e a noi genitori. Ci hai fatto sentire piccoli, meschini. Con lucidità e passione hai dato forma a pensieri covati nei giorni, negli anni. Nel modo più deciso ci hai comunicato le tue intenzioni: rinunciare al basket perché capisci di non avere sufficiente talento e impegnarti nello studio. Aggiungi anche riflessioni che farebbero la gioia di un educatore appassionato. Un giorno poi quella pelle è caduta e un’altra si è formata, poi un’altra ancora. Ti vedo correre ed è bello vederti cercare il tuo cammino. Intanto la pelle che mi ricopre non basta, qualcosa rimane sempre esposto. 

L’opposizione di Marte, pianeta rosso

Si rivedono dopo vent’anni sulla spiaggia della loro città nella sera di eclissi totale di luna, Marte in grande opposizione. “Anna! Ma non sei cambiata, sei sempre la stessa!” Lei indossa jeans strappati, una maglietta nera con un pulcino giallo dipinto a mano e un sorriso leggero. Gli va incontro lungo il camminamento di pietra mentre uno dopo l’altro cerca di far saltare i ponti dei ricordi. Con affettuoso distacco lo abbraccia.

Vorrebbe potergli dire “anche tu” ma non riesce: i suoi capelli non sono più neri, il corpo è appesantito e ha il viso stanco di chi ha dormito poco e male. Capisce anche che nemmeno ora riuscirà a chiederglielo. Se fosse stato lui il misterioso intervistatore col giubbetto chiaro quel mattino di quarant’anni prima. Sua madre non ha dubbi. “Stamattina si è presentato al cancello un ragazzo molto educato – per un sondaggio, un progetto scolastico, ha detto. L’ho lasciato entrare e abbiamo finito per parlare di famiglia, scuola e mondo giovanile. Un tipo interessante.”

A proposito di ricordi. Un pomeriggio a caso di quell’autunno. La scuola è ripresa da un mese e Anna è nuova in città. Il prato sotto la finestra è già stato inghiottito dall’ombra della casa. Finora questo è stato il luogo impregnato di luce e di suoni dove trascorrere l’infilata dei giorni estivi; ora la famiglia è lì per restare e lei è un’adolescente. Il mondo oltre il cancello non la interessa, lo osserva dalla sua camera, la finestra una grande lente. Su una vecchia cassapanca ha posto una radio che sintonizza su Radio Tre: vuole imparare ad ascoltare la musica classica che la attrae come un universo sottomarino. E’ fiduciosa, l’autodisciplina è un’antica alleata, come quando, undicenne, le ha fatto cambiare grafia per passare al più elegante stampatello inglese: della rotonda spensieratezza del corsivo non è rimasta traccia, il capitolo infanzia archiviato per sempre.

Nel nuovo liceo l’inserimento procede senza traumi. Allenata al balletto dei cambiamenti di compagni e insegnanti, confida in un elementare meccanismo di resilienza. Con paziente curiosità attende che ogni giorno depositi un altro tassello utile per elaborare nuove conoscenze e, quando complesse situazioni spuntano là fuori,  continua a tenerle sotto controllo con l’aiuto della scrittura.  E’ una pratica che le fa riempire quaderni di parole testarde. Paese. Le case sono piccole e antiche, le strade sono piccole anch’esse, passa una donna con gonna, passa un bambino che strilla disperatamente.

Ora, soprattutto, colleziona indizi. Compresi gli spostamenti di una bicicletta nera e gli sguardi fuggevoli ma non indifferenti di un tipo alto della quinta A. Sempre più spesso le sembra di vederlo ovunque: alle assemblee di scuola, per il corso, alle quattro iniziative culturali che la vita di provincia offre. La sua è una presenza costante: se ne sta in piedi in fondo alla sala, a braccia conserte e con la sciarpa al collo. Per qualche ragione spicca sugli altri: forse per la statura, forse per il caldo timbro della voce, oppure per gli occhi che brillano ironici in bilico su un sorriso.

Presto diventano amici ma per difetto di occhi verdi o azzurri, quelli che lui sistematico cerca nelle ragazze che corteggia, tali rimarranno: prova a contrario le giungerà per lettera anni dopo da oltreoceano: “forse, se non mi fossi lasciato distrarre da altri occhi azzurri, chissà che cosa avrei scoperto dietro i tuoi più schivi.” Per mesi, forse anni, continuano a scriversi mentre la quotidianità disegna i loro destini paralleli: altri occhi azzurri per lui, altro sguardo vivace per lei. Un giorno, nell’era liquida dei social, una lunga chat da una sponda all’altra dell’oceano li riconnette, poi si riperdono di vista, fin quando il caso li deposita su questa spiaggia, complici amici comuni e la fatalità di un lutto familiare per lui.

“E così voi due vi conoscevate già da tempo! E magari lei ti piaceva anche, eh?” Chiede qualcuno a cui lui ha appena elargito una generosa pacca sulla spalla. Il suo viso è nascosto nel buio, “con Anna siamo amici da sempre. Quando io frequentavo la quinta, lei era in seconda B. Il suo compleanno è il 12 aprile.” Ha sempre avuto il gusto del dettaglio. No, in fondo neanche lui è cambiato, pensa Anna. Non solo ha mantenuto la sua memoria da elefante ma anche i modi affabili del gran populista – “il nostro Che”, era solita chiamarlo, mentre lui incassava quell’epiteto con un senso di disagio che lei non aveva mai compreso fino in fondo.

La strampalata rassegna di domande e risposte che segue serve a entrambi per fare ordine nei ricordi e condensare anni di manovre esistenziali, mentre è alle memorie dei rispettivi smartphone che entrambi si affidano per illustrare il presente. Con orgoglio di marito e di padre fa scorrere qualche immagine di vita americana, quando però tocca a lei mostrare i suoi cari, lui si ritrae e sceglie l’autocommiserazione: “è inutile che me le mostri. Senza gli occhiali non vedo più nulla.”

Nessuno aggiunge altro, gli sguardi di tutti ora si appuntano al cielo, dove l’eclissi di luna si è fatta totale. Sei gradi più sotto del nostro satellite, in grande opposizione al sole, regale brilla Marte, colto nel momento di vicinanza massima al nostro pianeta. Dopo Venere e la Luna, è l’oggetto più luminoso.