Il sorriso poggia su lineamenti esotici e sembra riflettere le nostre aspettative: comunica empatia. Dal suo tappetino, seduto a gambe incrociate, il maestro di yoga Andrei ci osserva una ad una. Ha spalle larghe che sovrastano bicipiti ben definiti e una schiena eretta che dona eleganza alla figura. La lingua è una barriera neanche insormontabile perché ho una conoscenza base del russo e anche lui qualche frase in inglese è in grado di assemblarla, “slowly, slowly… take a deep breath“. In ogni modo mi piace l’immersione totale nella cultura e nella lingua, così come sapere di essere la mosca bianca in mezzo a un gruppo di agili venti-trentenni ucraine. Qui sono la babushka e di questo sorrido tra me e no, non lo rivelo a nessuno ma se anche già fosse noto, che bella medaglia: gli anni mi hanno depositata così, qui e ora. Narcisista certo rimango sempre ma ormai ben disposta a cedere lo specchio a chiunque lo reclami: allora me ne starei lì in un angolo a osservare e magari a scattare foto, a prendere eterni appunti per il romanzo di una vita che continua a chiedere di essere scritto e al contempo a nascondersi.
Andrei riduce l’uso delle parole al minimo, soltanto per impartire istruzioni, comunicare i movimenti da compiere. Pastore del piccolo gregge dei nostri corpi, li conduce all’allineamento di mani, piedi, colonne, colli, nuche, addomi: inspirare, espirare. Nel passaggio tra un asana e un altro, ciascuna di noi ha l’agio di ricucire gli strappi se non veri e propri traumi che il proprio essere ha registrato nel tempo recente. Intanto il tappeto sonoro del raga ci accompagna a entrare in questa nuova dimensione, ciascuna di noi al centro di ogni singola nota emessa dal sitar. Tutto questo si conforma all’insorgere dei primi pensieri del mattino, li ovatta, li assiste, li accompagna e infine li fortifica. Ogni nota traghetta il mini gruppo da una posizione all’altra e diffonde la nozione che il corpo è casa e più ancora tempio, Andrei uno dei suoi sacerdoti. Sono passate settimane, mesi, e il mio corpo è cambiato: ha perso peso, si è fatto più agile e potente: ora riesce a flettersi in archi concavi o convessi prima inimmaginabili, le mani riescono a intrecciarsi dietro la schiena, i piedi mi àncorano a terra mentre i palmi delle mani si estendono sempre più in là, con il bacino innalzato nella posizione del cane.
“The best, maladiez!” Dritti capelli lisci nero corvino, zigomi larghi e occhi allungati anche quando non elargisce sorrisi, Andrei ha tratti caucasici, asiatici forse – frutto della grande roulette russa dei dislocamenti etnici dei tempi sovietici? Un tajiko nato a Donetsk e con una laurea in legge all’università di Kharkiv? Chi è veramente questo coetaneo? Ora la singola nota avvolgente del sitar aleggia su tutte noi che pazienti manteniamo la posizione. Approdate nella tana del lupo buono, qui, nel centro di Kyiv, in uno spazio minimale ma funzionale, una telecamera di telefonino come occhio di grande sorella (la proprietaria del centro è una di queste splendide trentenni) a registrare tutto per editarlo e sbatterlo su Instagram in modalità gif, a rendere tutto banalmente normale, ma tutte noi ben disposte ad accettarlo e a pagare questa tassa alla modernità.
Ci sono volte in cui le fulminee battute di Andrei mi sfuggono. Non posseggo abbastanza controllo della lingua per decodificare certi sorrisi sui volti delle altre, deve trattarsi di un registro ironico che, ammiccante e lieve, un attraente maschio qui nell’Est Europa dispensa a femmine ancora fertili e fiduciose: un innocuo gioco di società con sue regole e ruoli, in cui tutto è ancora velatamente possibile, e perchè mai non dovrebbe. Riconciliata in partenza con il non senso, in quei momenti mi concedo un rotondo distacco, accolgo tutto mentre ebete sorrido, contigua a un’umanità femminile di fatto aliena: lì rimango a guardare, in compagnia di pensieri collaterali come note a piè di pagina.
Ha mani curate e dita eleganti Andrei, la presa salda di chi pratica da tempo il controllo sul proprio corpo, con ogni muscolo arruolato nella volontà di raggiungere l’armonia del tutto. “Ora bevete acqua ma attente non troppo fredda e a piccoli sorsi”, mi porge un bicchiere di carta già riempito, “spasiba” gli dico sapendo bene che quello è il segnale che prelude al gran finale, all’ultima sequenza, quella più impegnativa. Vado a posare il bicchiere in un angolo del pavimento e torno al mio tappetino (me lo ha regalato lui, in risposta alla mia richiesta di sapere dove poterlo acquistare, e, per compensare, poiché lui non ne ha voluto sapere di essere rimborsato, gli ho regalato una bottiglia di rosso italiano con la scritta “Essere” sull’etichetta). Si comincia: le note si susseguono – increspature più che onde sulla superficie di un mare placido, la terraferma ancora lontana -, i nostri corpi sincronizzati a seguire i movimenti della solida e flessuosa sagoma di Andrei. Con soddisfazione e una punta di stupore sento che il corpo mi sta obbedendo e che non è più come le prime volte che non riuscivo a seguire il ritmo delle altre: ora gambe e braccia eseguono in modo non solo automatico ma anche dignitoso l’intero esercizio. Finalmente sento di essere un’ultracinquantenne in armonia con sè stessa, una happy perennial, potrebbe essere la categoria coniata da un sociologo.
La sessione è terminata e la musica è cambiata, ora siamo in un prato. Andrei ci sta invitando a distenderci supine, a chiudere gli occhi e a rilassare gli arti: il momento del riposo che segue è un tempo che si dilata mentre là fuori tutto può accadere e non ha importanza, almeno per quindici minuti ancora. Facile, facilissimo scivolare oltre la soglia del sonno, e mentre la mente non fa nulla per impedirlo, aspettare con un’ombra di desiderio che Andrei venga a coprirmi e col rito del suo breve massaggio, infondermi energia. Mi ha appena avvolta in un soffice plaid di pile e con ferma dolcezza sta facendo oscillare le mie caviglie, quindi, con un impercettibile tocco finale – una firma d’autore -, le lascia inermi. Il suo passo ovattato si sposta ancora su di me fin quando sento stringermi polsi per poi rilasciarli, quindi comprimermi le anche, in un movimento antico di lento cullare che immagino non avere fine, finché di nuovo avverto quel fugace tocco di commiato che mette fine al flusso di energia. La sua presenza sopra il mio corpo aleggia ancora: per una lunga manciata di secondi e con una pressione via via crescente, mi comprime le spalle verso il materassino: da tempo ho smesso di opporvi resistenza anche solo mentale. Nel momento in cui la pressione viene meno, mi ritrovo a contemplarne l’assenza, rassegnata all’idea che sarà necessaria una nuova sessione per risalire a quello stato di piccola beatitudine.
Il sottofondo audio è stato riassorbito nel silenzio. Andrei ci invita a riassumere la posizione seduta a gambe incrociate e per gradi ci fa riaprire gli occhi e riprendere contatto con la realtà circostante: “bciem spasiba!“. Prima di varcare la porta di ingresso che dà direttamente sulla via, come quando sono arrivata il maestro mi saluta con un caloroso abbraccio, “your body is very good now!“, aggiunge, grata ricambio con un sorriso e saluto anche Sasha, la giovane ed efficiente proprietaria. Uscita in strada, metto gli auricolari, avvio Spotify e riprendo l’ascolto del mattino; lo sguardo mi finisce oltre l’altro lato della strada: là, oltre il muro perimetrale dei giardini botanici, all’interno di un’altissima serra di vetro, respira la leggendaria palma Livingstone di Kyiv, quella che a gennaio, mentre la città giace sotto gelidi strati di neve, torna a esplodere con la sua fioritura, gloriosa e placida nei suoi duecento anni di vita.
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