
Una fragola gigante
Al mattino presto tocca a lui portarmi fuori mentre lei si attarda a sonnecchiare ancora per un po’. Non stamattina, per colpa di quella grossa e improvvisa infiltrazione d’acqua sul soffitto del bagno. Passata l’emergenza, tutto come al solito, trafelata se n’è andata col materassino arrotolato sotto braccio alla lezione di Pilates. Quando è rientrata l’ha accolta il nostro solito silenzio, con lui in ufficio e i ragazzi a scuola. Noi quattro come sempre, lei e io, più i due che parlano parlano dentro lo smartphone che lei si trascina dietro di stanza in stanza. Stamattina però sembravamo soltanto in tre: mentre sorseggiava il suo tè, lei era altrove. Ieri sera li ho sentiti animarsi in un’ennesima discussione sull’educazione dei figli, sulle reciproche incomprensioni di carattere, sugli effetti deprimenti di menù poco variegati che lei continua a propinare senza voli di fantasia: senza passione, ecco. A me questo proprio non sembra: quel che rimane nei piatti me lo spazzolo sempre con grande gusto, anzi, ne vorrei di più di avanzi di lasagne, spezzatino e chili con carne. Di certo il marito e i ragazzi non cucinano mai, sempre troppo presi dai loro impegni sportivi, arrivano e scaricano in bagno sacche piene di fantastici odori, poi si fanno interminabili docce poi si piazzano davanti a un mega schermo a guardare gente che insegue una palla che a volte viene calciata lontano fino a colpire uno solitario che esce da una tana ridicola perché completamente trasparente, a volte viene strappata di mano e cacciata in alto dentro un canestro bucato, a volte il marito passa ore a guardare l’acqua immobile del mare puntinata di triangolini bianchi con omini colorati che si agitano di continuo.
Dopo il brusco risveglio e il Pilates si è fatta un tè e poi è scomparsa per farsi una doccia lampo e non arrivare tardi anche da Kika-Style. È il parrucchiere due strade più in là, lungo il viale alberato dove di solito mi porta a camminare la sera. È una catena di centri estetici con prezzi assurdi per questa città, paragonabili a quelli che trovi in centro a Milano. A lui dice che ci va “per fare uno studio d’ambiente”, capire quali tipi di donne qui a Kyiv possono permettersi tanto lusso – dalle fortunate che hanno tempo e mezzi, alle imprenditrici di sé stesse. Queste, le fiuto subito anch’io: le precede una nuvola di essenze che ti stordiscono, spesso arrivano scortate da Chihuaha e Cavalier King infichettati con bandane Hermès e guinzagli Swaroski, cagnetti prigionieri di borse extralarge tempestate di lettere d’oro. E comunque no, rassicura il marito, che non saranno soldi male investiti senza altro aggiungere se non quel sorriso misterioso che io non comprendo.
La doccia lampo le è stata però fatale. L’acqua sta scorrendo e alla radio stanno duettando Telese e Giannino, umana parodia del noi contro loro, quando un grido di dolore invade le mie orecchie che subito si drizzano a scandagliare l’etere. Col cuore al galoppo mi fiondo nel disgraziato bagno e che che cosa ti trovo?! sotto un getto d’acqua battente, lei accucciata e sanguinante. Singhiozza lei e guaisco io, fin quando la vedo tentare di tirarsi su e poi arrancare verso lo specchio. Con occhi da pazza controlla che cosa l’è successo: sulla chiappa destra scorge di avere una fragola gigante, un tattoo rosso sangue! Quando poi si tasta la nuca spalanca gli occhi come mai prima, tanto che dal panico me la faccio addosso.
“Cazzo! Ma che taglio mi son fatta?!” comincia a singhiozzare come una bambina pazza e bellissima sotto una cascata di capelli arruffatissimi. Ancora nuda e gocciolante si dirige a tentoni verso la cucina e con mano tremante apre lo sportello del freezer per estrarre il ghiaccio dal contenitore e ficcarne qualche pezzo dentro la boule. Roba da film horror: la maniglia dello sportello rimane impiastrata di sangue e a questo punto io non posso non ululare. Continua a piagnucolare mentre si preme la boule sulla nuca: quando la rimuove per controllare, c’è sangue dappertutto. Sono sincero: il sangue di solito mi eccita ma questa volta mi dà soltanto delle palpitazioni che se continua così mi spezzeranno il cuore.
“Ma che idiota sono?! Mi sono spaccata la testa… come faccio a far finta di nulla ora, devo per forza andare da qualcuno per farmi ricucire, ma da chi, da chi? E dove? Quando?!” I cani e gatti della radio ora tacciono e per prima cosa sta telefonando al centro estetico delle cagnette VIP per cancellare l’appuntamento. Sta facendo tutto al rallentatore e usa un tono calmo e pacato, spiega alla tipa che al momento non è in grado di riprogrammare e che si farà risentire appena possibile. Il suo autocontrollo mi dà speranza. Forse il peggio è passato.
Ora si è asciugata e sta cercando di vestirsi facendo attenzione a tener ferma la boule sulla ferita che ora non sanguina più. Per sicurezza tiene assieme il tutto con la fascia arcobaleno del Color Run di Bucarest. Quando però finisce di infilarsi maglia pantaloni e giacca, si accascia inerte sulla poltrona. La vedo che inspira ed espira con una lentezza estenuante: sta appuntando lo sguardo su un angolo del soffitto cercando di riprendere energie. Quando chiude gli occhi sono pronto a scommettere che si sia addormentata invece deve aver sentito il rumore dei miei pensieri e si gira a lanciarmi uno sguardo severo dei suoi: WAW, penso, la mia padrona si piega ma non si spezza! Ora lo sguardo è di nuovo vigile sullo schermo dello smartphone mentre il dito scrolla e cerca, immagino, dove andare a farsi ricucire la testa.
Mi avvicino scodinzolante nella speranza che mi dica, su Tognazzi, andiamo! Ma è una stupida illusione e tutto quello che mi fa, mentre con fatica fa scivolare i piedi negli scarponcini senza calze, è una rapida strigliata al dorso. Sono diventato trasparente, ha occhi soltanto per il suo telefono. Invece no, mi sbaglio, ora si è accorta di me e mi sta strigliando con crescente energia. Dura pochissimo però perché – DIN! – il telefono l’ha appena avvisata che l’auto è in strada.
“Torno presto, Tognazzi e ti prego, almeno tu, oggi, fa’ il bravo.” Il cuore mi batte forte forte in gola e la coda mi si muove a tergicristallo, lei nemmeno se ne accorge perché ha la testa e i pensieri tenuti insieme dal ghiaccio e dal dolore. Davvero spero che questa storia finisca presto e bene, sia perché mi fa battere il cuore troppo forte, sia perché oggi qui è la prima giornata in cui fiuto un’aria che profuma di sole.
Stretti per mano
A metà novembre le incantevoli ragazze di Kyiv attendono fiduciose l’arrivo dell’inverno. All’abito sobrio o svolazzante hanno aggiunto il dettaglio di una sciarpa o un cappello in stile milanese: nulla del kitsch che spesso ispira le corrispettive di Bucarest. All’uscita della fermata della metropolitana, la novità è servita: il marciapiede si è fatto bianco e ci mette pochissimo a riempirsi di impronte: scarponcini, stivali, scarpe con tacco. L’immacolato silenzio è sporcato appena dai guaiti di un cane. La scena è cambiata. In una luminosa giornata di fine inverno la neve ha invaso ormai tutti gli spazi della città. Schiere di anime mute camminano lungo percorsi obbligati e ai semafori migrano da un marciapiede all’altro. Noi due ci scambiamo sorrisi e ci teniamo stretti per mano, aspettiamo di attraversare. Ora però, proprio quando le cose si stanno mettendo bene e lui sta per dirmi qualcosa che aspetto mi dica da anni – quanti ormai? -, il guaito di un cane si fa più insistente, poi mio figlio mi tocca la spalla, “Mamma, dai, svegliati! Vieni a vedere in bagno, ci piove dal soffitto!”
Precipitata nella dura realtà di un nuovo mattino. Buongiorno, Kyiv. Sono trascorsi appena sei mesi da quando siamo arrivati con otto valige e un quadrupede che la tirannia delle cose ha già ripreso il controllo. Tutto ha covato nel cuore della notte mentre dormivamo, l’inconscio di ciascuno smarrito tra gli incastri di vecchi e nuovi vissuti, ingredienti base di ogni eterno inizio. Dopo anni di onorato lavoro, una tubazione al piano superiore ha ceduto dando il peggio di sé nel ventre della notte, perché non è vero che tutte le cose ci sopravviveranno, anche loro come noi invecchiano e a volte piuttosto male. Ancora in bilico tra due mondi, faccio per circumnavigare Tognazzi e afferrare la vestaglia ma lui gioca d’anticipo scuotendo il pelo e zampettando lontano verso il suo angolo preferito della sala. Lo specchio dell’ingresso mi restituisce uno sguardo ottuso, gli rispondo con uno sbadiglio e mi fiondo su al terzo piano. Passano svariati secondi prima che la porta si apra. “Chiedo scusa per l’orario ma nel nostro bagno al secondo piano sta piovendo dal…”
Quanto la giovane donna in pigiama a fiorellini abbia capito del mio inglese non è dato sapere perché la frase viene intercettata da un uomo giunto alle sue spalle. “Scendiamo a vedere!” In realtà scende soltanto lui, lei senza dire una parola scompare. Fulmineo mi segue giù con due fessure al posto degli occhi serrati su chissà quale altrove fino a un istante prima. Sulla porta non so perché ma lascio che lui mi preceda, guardingo entra e dirige lo sguardo in ogni direzione, prende nota di ogni dettaglio, compreso del bastardino che lo sta fissando con denti digrignanti e un orecchio teso. L’uomo ha capelli lisci e corvini, un corpo asciutto e muscoloso. La sua pelle diafana emerge da una canottiera immacolata tradita soltanto da una macchiolina scura al centro della schiena, dalla spalla destra una cicatrice scompare giù, convergendo proprio su quel punto. “Questa perdita non proviene dal nostro appartamento, il nostro è metà del vostro.” Come non leggervi una scheggia di antica rivendicazione, ma manca il tempo di elaborare e subito aggiunge “viene dall’appartamento accanto al nostro. Saliamo a vedere se c’è qualcuno.”
Ormai è del tutto sveglio e il suo sguardo siberiano mi scandaglia con flemma militare. Presto mi ritrovo di nuovo per le scale dietro di lui, su per polverosi gradini di pietra, l’olfatto che all’alba ancora fatica a gestire gli assalti di un marciume ristagnante. All’inizio avevamo creduto che fossimo stati sfortunati noi a essere capitati in una palazzina d’epoca pre-rivoluzionaria con un’area comune tanto negletta: cablaggi aggrovigliati e fili passanti sopra ogni porta, non un uscio uguale all’altro, alcune porte feticci di privacy dei giorni sovietici ancora in tetra vilpelle nocciola con imbottitura matelassé. Ci sbagliavamo: l’arredo dei condomini con tripudio di piante grasse, marmi e ottoni che a Milano dichiara la rispettabilità se non l’esistenza della classe media, nei vecchi stabili di Kyiv non ha corrispettivi: le scale sono terra di nessuno mentre, tuttalpiù, i moderni complessi residenziali aspirano agli standard di un lusso internazionale senz’anima, da hotel a cinque stelle. A mancare qui è, da tempi immemorabili, l’animale borghese. Corpo sociale depennato nell’era sovietica, se n’è infine persa traccia nel DNA delle persone, fin dentro la lingua parlata: qui si è soltanto uomini o ragazze, altro che signore e signori! Suoniamo più volte e invano il campanello. Senza nemmeno tentare di imbastire un dialogo, teniamo entrambi gli sguardi appuntati sul decrepito zerbino. Come sono densi i silenzi qui a Kyiv, penso anche alla giovane donna apparsa per un attimo e subito riassorbita nel silenzio delle cose. “Nessuno in casa. Posso avvisare io l’amministratore dell’edificio, ho il numero. Una buona giornata, sa dove trovarmi.” Delusa, spettinata e con la frustrazione di un sogno spezzato, mi limito a rispondere con un sorriso, semplice quanto potente elisir in queste terre sofferenti che tanto apprezzano l’Italia e il calore degli sguardi.
Con soddisfazione scopro che giù in casa i riti d’inizio giornata si sono consumati senza intoppi nonostante l’assenza della sacerdotessa: colazioni terminate, cane portato fuori e ragazzi in attesa dell’Uber. Lui già per strada, la prua contro flusso, per arrivare in ufficio, svariati chilometri più a Est, con borsa da palestra e mela salutare. “A stasera, mamma, buona giornata!” Un bacio di commiato stampato sulla fronte dai due che ormai mi superano in altezza: prove generali di distacco, la decrescita felice ha avuto inizio. Soltanto ieri li ho sentiti sgambettare dentro, per accompagnarli poi per la manina a dare il nome a ogni cosa attorno. Ora a tutto pensa Uber e presto la casa si svuoterà e rimarremo noi e il cane.
Prendo il materassino e corro a Pilates, per una pigra come me la disciplina del corpo è importante. Quando torno la casa è immersa nel silenzio. “Tognazzi, dove sei finito?!” In sala non c’è, lo ritrovo al bagno che contempla la situazione: il soffitto ha smesso di grondare, rimangono sempre più sporadiche gocce e un’aria ristagnante di umidità. Il cane umarell mi mancava, sorrido mentre sfilo dalla tasca della giacca il cellulare e cancello in blocco i primi dodici messaggi di un gruppo whatsapp dal quale non posso uscire ancora per un po’, in ossequio a una delle stupide regole non scritte della netiquette. Ma questa è un’altra storia. Con molto più interesse clicco sull’icona di Radio24 col sornione accento romanesco di Luca Telese che subito mi arruola nel popolo dei già svegli: italiani che addentano l’alba mentre tutti gli altri dormono ancora. Piccolo bluff il mio, è soltanto l’ora di fuso avanti in cui mi capita di vivere che mi assegna a questo esercito silenzioso di italiani. C’è la prof in pensione che siccome ha il sonno leggero ha deciso di rileggersi tutta la Divina Commedia, l’agente di commercio che si mette in marcia prima dell’alba per arrivare a coprire tutto il suo territorio, il camionista che percorre lo stivale da Nord a Sud e viceversa e il pendolare che ogni giorno affida il suo destino ai treni regionali.
Sorseggio la mia tazza di tè lasciandomi cullare da un mood neorealista e malinconico: cosa mi porterà questo nuovo giorno che si va imbastendo? Fuori intanto il sole si sta dando da fare: non è pioggia quella che sta picchiettando in cortile ma tutta la neve accumulatasi nei mesi passati che va sciogliendosi in un giorno di inizio primavera. Ora però basta perché come sempre sono in ritardo: dopo la prima emergenza del mattino mi rimane appena il tempo per una doccia veloce, prima di sgambettare dal parrucchiere delle VIP, per uno dei miei studi d’ambiente, diciamo così.
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