Lezioni di fioritura

Il sorriso poggia su lineamenti esotici e sembra riflettere le nostre aspettative: comunica empatia. Dal suo tappetino, seduto a gambe incrociate, il maestro di yoga Andrei ci osserva una ad una. Ha spalle larghe che sovrastano bicipiti ben definiti e una schiena eretta che dona eleganza alla figura. La lingua è una barriera neanche insormontabile perché ho una conoscenza base del russo e anche lui qualche frase in inglese è in grado di assemblarla, “slowly, slowly… take a deep breath“. In ogni modo mi piace l’immersione totale nella cultura e nella lingua, così come sapere di essere la mosca bianca in mezzo a un gruppo di agili venti-trentenni ucraine. Qui sono la babushka e di questo sorrido tra me e no, non lo rivelo a nessuno ma se anche già fosse noto, che bella medaglia: gli anni mi hanno depositata così, qui e ora. Narcisista certo rimango sempre ma ormai ben disposta a cedere lo specchio a chiunque lo reclami: allora me ne starei lì in un angolo a osservare e magari a scattare foto, a prendere eterni appunti per il romanzo di una vita che continua a chiedere di essere scritto e al contempo a nascondersi.

Andrei riduce l’uso delle parole al minimo, soltanto per impartire istruzioni, comunicare i movimenti da compiere. Pastore del piccolo gregge dei nostri corpi, li conduce all’allineamento di mani, piedi, colonne, colli, nuche, addomi: inspirare, espirare. Nel passaggio tra un asana e un altro, ciascuna di noi ha l’agio di ricucire gli strappi se non veri e propri traumi che il proprio essere ha registrato nel tempo recente. Intanto il tappeto sonoro del raga ci accompagna a entrare in questa nuova dimensione, ciascuna di noi al centro di ogni singola nota emessa dal sitar. Tutto questo si conforma all’insorgere dei primi pensieri del mattino, li ovatta, li assiste, li accompagna e infine li fortifica. Ogni nota traghetta il mini gruppo da una posizione all’altra e diffonde la nozione che il corpo è casa e più ancora tempio, Andrei uno dei suoi sacerdoti. Sono passate settimane, mesi, e il mio corpo è cambiato: ha perso peso, si è fatto più agile e potente: ora riesce a flettersi in archi concavi o convessi prima inimmaginabili, le mani riescono a intrecciarsi dietro la schiena, i piedi mi àncorano a terra mentre i palmi delle mani si estendono sempre più in là, con il bacino innalzato nella posizione del cane.

The best, maladiez!” Dritti capelli lisci nero corvino, zigomi larghi e occhi allungati anche quando non elargisce sorrisi, Andrei ha tratti caucasici, asiatici forse – frutto della grande roulette russa dei dislocamenti etnici dei tempi sovietici? Un tajiko nato a Donetsk e con una laurea in legge all’università di Kharkiv? Chi è veramente questo coetaneo? Ora la singola nota avvolgente del sitar aleggia su tutte noi che pazienti manteniamo la posizione. Approdate nella tana del lupo buono, qui, nel centro di Kyiv, in uno spazio minimale ma funzionale, una telecamera di telefonino come occhio di grande sorella (la proprietaria del centro è una di queste splendide trentenni) a registrare tutto per editarlo e sbatterlo su Instagram in modalità gif, a rendere tutto banalmente normale, ma tutte noi ben disposte ad accettarlo e a pagare questa tassa alla modernità.

Ci sono volte in cui le fulminee battute di Andrei mi sfuggono. Non posseggo abbastanza controllo della lingua per decodificare certi sorrisi sui volti delle altre, deve trattarsi di un registro ironico che, ammiccante e lieve, un attraente maschio qui nell’Est Europa dispensa a femmine ancora fertili e fiduciose: un innocuo gioco di società con sue regole e ruoli, in cui tutto è ancora velatamente possibile, e perchè mai non dovrebbe. Riconciliata in partenza con il non senso, in quei momenti mi concedo un rotondo distacco, accolgo tutto mentre ebete sorrido, contigua a un’umanità femminile di fatto aliena: lì rimango a guardare, in compagnia di pensieri collaterali come note a piè di pagina.

Ha mani curate e dita eleganti Andrei, la presa salda di chi pratica da tempo il controllo sul proprio corpo, con ogni muscolo arruolato nella volontà di raggiungere l’armonia del tutto. “Ora bevete acqua ma attente non troppo fredda e a piccoli sorsi”, mi porge un bicchiere di carta già riempito, “spasiba” gli dico sapendo bene che quello è il segnale che prelude al gran finale, all’ultima sequenza, quella più impegnativa. Vado a posare il bicchiere in un angolo del pavimento e torno al mio tappetino (me lo ha regalato lui, in risposta alla mia richiesta di sapere dove poterlo acquistare, e, per compensare, poiché lui non ne ha voluto sapere di essere rimborsato, gli ho regalato una bottiglia di rosso italiano con la scritta “Essere” sull’etichetta). Si comincia: le note si susseguono – increspature più che onde sulla superficie di un mare placido, la terraferma ancora lontana -, i nostri corpi sincronizzati a seguire i movimenti della solida e flessuosa sagoma di Andrei. Con soddisfazione e una punta di stupore sento che il corpo mi sta obbedendo e che non è più come le prime volte che non riuscivo a seguire il ritmo delle altre: ora gambe e braccia eseguono in modo non solo automatico ma anche dignitoso l’intero esercizio. Finalmente sento di essere un’ultracinquantenne in armonia con sè stessa, una happy perennial, potrebbe essere la categoria coniata da un sociologo.

La sessione è terminata e la musica è cambiata, ora siamo in un prato. Andrei ci sta invitando a distenderci supine, a chiudere gli occhi e a rilassare gli arti: il momento del riposo che segue è un tempo che si dilata mentre là fuori tutto può accadere e non ha importanza, almeno per quindici minuti ancora. Facile, facilissimo scivolare oltre la soglia del sonno, e mentre la mente non fa nulla per impedirlo, aspettare con un’ombra di desiderio che Andrei venga a coprirmi e col rito del suo breve massaggio, infondermi energia. Mi ha appena avvolta in un soffice plaid di pile e con ferma dolcezza sta facendo oscillare le mie caviglie, quindi, con un impercettibile tocco finale – una firma d’autore -, le lascia inermi. Il suo passo ovattato si sposta ancora su di me fin quando sento stringermi polsi per poi rilasciarli, quindi comprimermi le anche, in un movimento antico di lento cullare che immagino non avere fine, finché di nuovo avverto quel fugace tocco di commiato che mette fine al flusso di energia. La sua presenza sopra il mio corpo aleggia ancora: per una lunga manciata di secondi e con una pressione via via crescente, mi comprime le spalle verso il materassino: da tempo ho smesso di opporvi resistenza anche solo mentale. Nel momento in cui la pressione viene meno, mi ritrovo a contemplarne l’assenza, rassegnata all’idea che sarà necessaria una nuova sessione per risalire a quello stato di piccola beatitudine.

Il sottofondo audio è stato riassorbito nel silenzio. Andrei ci invita a riassumere la posizione seduta a gambe incrociate e per gradi ci fa riaprire gli occhi e riprendere contatto con la realtà circostante: “bciem spasiba!“. Prima di varcare la porta di ingresso che dà direttamente sulla via, come quando sono arrivata il maestro mi saluta con un caloroso abbraccio, “your body is very good now!“, aggiunge, grata ricambio con un sorriso e saluto anche Sasha, la giovane ed efficiente proprietaria. Uscita in strada, metto gli auricolari, avvio Spotify e riprendo l’ascolto del mattino; lo sguardo mi finisce oltre l’altro lato della strada: là, oltre il muro perimetrale dei giardini botanici, all’interno di un’altissima serra di vetro, respira la leggendaria palma Livingstone di Kyiv, quella che a gennaio, mentre la città giace sotto gelidi strati di neve, torna a esplodere con la sua fioritura, gloriosa e placida nei suoi duecento anni di vita.

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Lies, Lies and More Lies

Photo by Külli Kittus on Unsplash

“Such an honourable man, and so honest…” 

The heroine cracks into a laughter just as I am pouring hot water onto Nescafè Gold powder inside my favourite mug. What will happen now? But it’s already five to two and no time left to indulge in further listening. I switch the podcast off, grab my silenced mobile and mug and get back to my desk. When I cook or have lunch I usually tune in to Radio24 news feed but for a change today I have picked up an audio drama. Fact is Supermario has saved Italy today – he has just sworn in – and everybody’s happy now, the bad thing’s gone away. “Such an honourable man, and so honest…” I find myself wondering and pondering on the endless hide & seek game imagination plays with reality.

For sure, these days I am quite busy at any possible level. Since we have got trapped in the amber of pandemia I have joined the global herds of those who work online. I teach Italian as a foreign language and except for J. who is an American teacher who plans to learn Italian to apply for her Italian citizenship, all my students are Ukrainians. A few of the youngest need the language to apply for Italian universities, most of the elder – except for D. who is a businessman who owns his chain of jewelery shops across the country, N. who describes herself as a latinist and T. who is a bass opera singer – most of them are studying the language for sheer escapism and out of their love for anything Italian.

The task of effectively communicating my language and culture to so many different learners both thrills and challenges me. It certainly forces me to reconsider the way I look at my cultural heritage. Other two of my students take private lessons. The youngest one is six-year-old. I teach her only face-to-face three days a week, actually on daily basis over the past winter holidays, including on the Orthodox Christmas day. She lives in a secluded estate in Koncha-Zaspa, a historic neighbourhood in the Holosiivsky Raion. The area is known for being the place where Ukraine’s political elite live. Located in the Southern part of the city, in the 1920s the territory was the first state preserve in the Ukrainian SSR. A driver comes to pick me up at a midway point between there and my place.

D. is actually already fluent and my task is to play the language guardian and teach her reading and writing, alongside her home schooling process in Ukrainian. Apparently she has learned Italian in two months’ time over her last summer holidays spent in Southern Italy. There, on daily basis, two dedicated teachers alternated in engaging her with la dolce lingua, here back home, cartoon watching has kept her Italian alive, till the arrival of Pani Lucia. In fact, D. is the only one who speaks Italian in her household – “with no accent!” – excitedly informs me her mom who had learned that from her Italian friends who spoke to D. over the phone. Kids her age are sponges, their sinapsis creating immediate connections by the minute, not like mine more and more engaged in their trench warfare against the ghosts of permanent oblivion.

In a way, D. teaches me something too. One day in the garden we were building our snowman and she proved quite skilful. As I congratulated she revealed her secret: “when I was  little my dad taught me how to build them”. Another time, before New Year, we were picking up dry leaves from the ground to decorate a yolka, a christmas tree, already equipped with elegant electric festoons. All along a squirrel had been perching on a branch above our heads, biting nuts and  monitoring our delicate manouvers.  I made her notice that and there she goes, “I know! He is always looking for me!”. It was ages since I felt so light inside, a simple being in a quiet wood, the very place where the tiny mouse dares to venture against all odds, finally succeeding in taming the Gruffalo. D. keeps asking me to read the Italian version of that story again and again, and each time her renewed final surprise takes me by surprise too.

Other minor scenes also stay with me. Some weeks after new year, her parents had flown to Italy and I had arrived a bit earlier than usual. She protested that no, Pani Lucia, we could not start our lesson yet, as busy as she still was overseeing the dismantling of the gigantic yolka placed at the base of the large staircase in the main lobby. I conceded that she continued to supervise the operations for few more minutes and so we went back there following the upstream growing sound of a singing nightingale, its cage placed in a corner of the large lobby. There, two silent service ladies in white cotton gloves were busy unplucking from the yolka – one by one – large red and green blown glass spheres. The whole floor around the tree was scattered with open immaculate cardboard boxes filled with polystyrene: the winter season decoration campaign was officially over and all its delicate armaments were being retrieved back into their peaceful arsenal. We only stayed for a few minutes there but the scene stays with me: her lightly jumping from side to side – she almost dancing – amid the Murano ammunitions, high-pichted notes from a wooden cage filling up the scented air.

Two o’clock, I have got to go now, my online lesson with my other private student is starting. I meet V. offline once a week and twice online. She is thirteen and unlike D. she started from scratch and now, after her thirtieth-something lesson, she has started to articulate basic sentences: I let her be, above all grab what she can from our lessons which she seems to love. In fact it was out of her love for Adriano Celentano that she decided to learn Italian. She knows all his songs by heart and despite I have been proposing her Jovanotti and other more recent singers, she persists. For her birthday, amid a number of presents she had received, she showed me her favourite one: a life-size silhouette of Adriano Celentano handing out a red rose in his half-romantic smile. Last week she came to my house for a free lesson where I taught her how to prepare Carneval sweets which afterwards she would bring home. “Lies, lies and more lies! Lies are so yummy!” Yes, these Carneval sweets we call bugie, lies in English. 

Now, really, I have to go.

Egregio Canonico Walter

Egregio Canonico Walter,

La raggiungo nel silenzio della pagina scritta, fin dentro l’opera che da mezzo secolo La vede appassionato e lucido osservatore di una Roma di fine millennio. Benvenuto nel nostro eterno presente, Lei che seppe vedere cose che i Suoi contemporanei mai, Lei che ben sa che cosa intendiamo oggi per pagina scritta: non più soltanto il cartaceo ma anche il digitale che sempre più spesso compulsiamo sui nostri e-reader, supporti elettronici di pochi grammi di peso, capaci di gestire con analogo click l’ennesimo romanzo inutile o la poesia che può salvarci la giornata se non la vita.

A ben guardare, coi piedi quasi conficcati nel terzo decennio del nuovo millennio, questo presente non è troppo dissimile da quello che esplorò Lei, non fosse che per la differenza prodotta da un fenomeno singolare che è già monito di “come sarà presto il mondo senza noi umani in plancia di comando”. Mi riferisco all’avvento dello smartphone quattordici anni fa. Senza clamore quel diabolico (in senso etimologico) aggeggio ha finito per assegnare nuove priorità alle nostre esistenze, sin da subito, nella più quieta e indifferente quotidianità, impossessandosi delle anime nostre e ancora di più di quelle dei più giovani.

Egregio Walter, abbia pazienza, rimetto la barra del timone in rotta e punto dritta in boa: son qui per proporLe un incontro a Roma per giovedì 24 giugno 2021, alle 20,30 in Piazza Navona. Osserverà che la data prescelta non è casuale marcando l’anniversario del Suo ritorno nella Città Santa in quel giorno degli anni Novanta. Quanto al locale Da Filippetto, “il ristorante degli ecclesiastici di passaggio a Roma”, forse non esiste più ma troveremo un luogo di analogo spessore. Come ben sa, in Italia – e a Roma più che mai, tutto cambia perché nulla cambi, semmai diventando più caricaturale e grottesco. Considerazioni logistiche a parte, forte rimane la convinzione che quella serata romana ci consentirà di celebrare la nascita di un’intesa.

Ora mi sembra di vederli, i Suoi accigliati occhi nordici tornare a posarsi con circospetta cautela, ma anche con trattenuta curiosità, sulle righe qui sopra. Insinuandomi nella manciata di minuti restanti a disposizione prima che Lei proceda alla meticolosa riduzione in brandelli della presente, scompiglio la Sua flemma elvetica con quel pizzico di italica malizia che pur mi scorre nelle vene.

Mi chiamo A. e, come Lei con la Sua Lotte, anch’io col mio compagno condivido una lunga stringa di giorni di profonda comunione spirituale. Ed è a lui che devo il mio primo incontro con Roma senza Papa, il giorno che condividemmo oltre alla vita anche i nostri libri. Magari potessimo rimanere coetanei per sempre. Perché sì: primavera più, primavera meno, i nostri attuali cinquanta e qualcosa corrispondono ai Suoi eterni cinquanta dell’incipit del romanzo. Anche un curioso parallelismo temporale mi lega a Lei: mentre in quei fatidici Anni Novanta Lei torna sulla scena romana come adulto, la sottoscritta vi fa ritorno come studentessa di lingue alla Sapienza. Non solo: anche in età infantile vi ho vissuto e proprio quando Lei vi era giunto per la prima volta nei panni di giovane aiuto-minutante.

Come la Sua Lotte, sicura di giudicarLa marito fedele persino nei sogni, anche il mio P. può a buona ragione considerarmi compagna leale e affidabile. Ciò non impedisce che, negli anni della maturità, io ami spingermi alla scoperta di nuovi amici dentro le pagine di un romanzo. E questo sarebbe Lei per me: un compagno di bicchiere per brindare alla vita. Così, quella sera di giugno mi piacerebbe proporLe un recioto: “dolce senza niente di blando, ansi su un fondo sapido, robusto, con toni persino gravi. Colore, rubino scuro, o forse amaranto. Uno dei più squisiti scacciapensieri che un uomo (e una donna, aggiunge ora la sottoscritta) civile si possa concedere.” Perché, come Lei annota, “dal cattolicesimo al vino c’è un nesso ecologico, di habitat, ovvio anche se nessuno lo ha mai studiato, e ce n’è un altro liturgico-sacrale” e un terzo ancora: “l’animo cattolico è spontaneo nei luoghi dove il vino, più che una bevanda, è un conforto necessario, una ragione vitale. (Vitis, vita).”

Quando vivevamo ancora in Italia, nei fine settimana lasciavamo la grande città di pianura per rifugiarci in una casa ai piedi del Monte Rosa dove non c’erano né televisore né internet. Nelle stagioni propizie salivamo i sentieri di montagna coi nostri figli allora ancora creature senza smartphone, vaccinate contro il virus della bambinocrazia. La montagna ci nutriva l’anima: il suo respiro silenzioso ci guidava su per i sentieri, qualcosa che anche Lei deve aver sperimentato sin da bambino.

Davvero scrivere plasma le coscienze: dopo che del mio amore per la montagna Le ho fatto cenno, sento necessario passare dall’urbano Lei al montanaro tu, certa che apprezzerai. Tu e io parliamo: come te, Walter, nel corso del tempo anch’io mi sono accostata allo studio di più lingue sebbene non tutte le abbia portate ai tuoi livelli avanzati di conoscenza… né sono riuscita, come tu hai saputo fare con grande autodisciplina, a valorizzarne l’uso in modo professionale: mi limito a servirmene come chiavi di accesso all’’altro’, nulla più.

Soprattutto, come per te, anche per me che ora vivo all’estero, l’Italia è il sole e la tua Roma la mia Italia di oggi. Tu scrivi “la bonomia, a Roma, è ricca, e perciò espansiva. (…) Rusticucci simpatizza, solidarizza, mi dedica quella cordialità più insinuante che consiste nel fingersi partecipi alla malasorte del prossimo.” Ebbene oggi in Italia Rusticucci si sono chiamati nel tempo Berlusconi, Renzi, Di Maio, Conte. Sì, noi italiani siamo proprio così e in tanti decenni i difetti dell’Italia hanno subito continue involuzioni: insieme al tifo dissennato regnano ancora la sporcizia, il chiasso e la pessima manutenzione delle strade. Per non parlare della bambinocrazia, dei quali effetti tu già ci mettevi in guardia e il cui frutto maturo sembra essere il “bullismo”, fenomeno aberrante che distrugge i delicati riti di passaggio per tanti giovani d’oggi.

Non solo: avevi ragione anche su un altro punto. L’entrata in Europa, ha retrocesso l’Italia a ‘Sud’, svalutando la sua economia e la sua tecnologia alla stregua di “relitti anti-economici di un passato autarchico”, tanto che da sempre più parti si sente parlare di hôtelizzazione dell’intero Paese, perché “da voi, solo il sole!” mentre il benessere economico nazionale si mantiene a livelli europei grazie al “mignottismo”.

Ecco, Walter carissimo, il mio invito è un esperimento umano. L’auspicio è che un incontro ideale tra persone di buona volontà che ancora credono nell’esistenza del Diavolo possa avvenire, anche soltanto per una sera di inizio estate. In seguito ci sarebbe tanto da ricordare, soprattutto da parte mia. Ti terrò aggiornato.

Con affetto,

A.

PS: Ora Roma dispone di due papi: l’uno, gesuita e nell’esercizio delle sue funzioni, è impegnato a ripudiare la romanità fastosa mentre la dimensione festosa, essendo sudamericano di origini piemontesi, la tiene ancora in debita considerazione; come sostieni tu, resta da vedere se ci riuscirà: “città, e razza, qui sono felicemente refrattarie”. L’altro, ormai ex Papa, si è ritirato ai castelli romani – 30 minuti da Zagarolo – in stato claustrale, è come te, di madrelingua tedesca.

Il popolo dei già svegli

Una fragola gigante

Al mattino presto tocca a lui portarmi fuori mentre lei si attarda a sonnecchiare ancora per un po’. Non stamattina, per colpa di quella grossa e improvvisa infiltrazione d’acqua sul soffitto del bagno. Passata l’emergenza, tutto come al solito, trafelata se n’è andata col materassino arrotolato sotto braccio alla lezione di Pilates. Quando è rientrata l’ha accolta il nostro solito silenzio, con lui in ufficio e i ragazzi a scuola. Noi quattro come sempre, lei e io, più i due che parlano parlano dentro lo smartphone che lei si trascina dietro di stanza in stanza. Stamattina però sembravamo soltanto in tre: mentre sorseggiava il suo tè, lei era altrove. Ieri sera li ho sentiti animarsi in un’ennesima discussione sull’educazione dei figli, sulle reciproche incomprensioni di carattere, sugli effetti deprimenti di menù poco variegati che lei continua a propinare senza voli di fantasia: senza passione, ecco. A me questo proprio non sembra: quel che rimane nei piatti me lo spazzolo sempre con grande gusto, anzi, ne vorrei di più di avanzi di lasagne, spezzatino e chili con carne. Di certo il marito e i ragazzi non cucinano mai, sempre troppo presi dai loro impegni sportivi, arrivano e scaricano in bagno sacche piene di fantastici odori, poi si fanno interminabili docce poi si piazzano davanti a un mega schermo a guardare gente che insegue una palla che a volte viene calciata lontano fino a colpire uno solitario che esce da una tana ridicola perché completamente trasparente, a volte viene strappata di mano e cacciata in alto dentro un canestro bucato, a volte il marito passa ore a guardare l’acqua immobile del mare puntinata di triangolini bianchi con omini colorati che si agitano di continuo.

Dopo il brusco risveglio e il Pilates si è fatta un tè e poi è scomparsa per farsi una doccia lampo e non arrivare tardi anche da Kika-Style. È il parrucchiere due strade più in là, lungo il viale alberato dove di solito mi porta a camminare la sera. È una catena di centri estetici con prezzi assurdi per questa città, paragonabili a quelli che trovi in centro a Milano. A lui dice che ci va “per fare uno studio d’ambiente”, capire quali tipi di donne qui a Kyiv possono permettersi tanto lusso – dalle fortunate che hanno tempo e mezzi, alle imprenditrici di sé stesse. Queste, le fiuto subito anch’io: le precede una nuvola di essenze che ti stordiscono, spesso arrivano scortate da Chihuaha e Cavalier King infichettati con bandane Hermès e guinzagli Swaroski, cagnetti prigionieri di borse extralarge tempestate di lettere d’oro. E comunque no, rassicura il marito, che non saranno soldi male investiti senza altro aggiungere se non quel sorriso misterioso che io non comprendo.

La doccia lampo le è stata però fatale. L’acqua sta scorrendo e alla radio stanno duettando Telese e Giannino, umana parodia del noi contro loro, quando un grido di dolore invade le mie orecchie che subito si drizzano a scandagliare l’etere. Col cuore al galoppo mi fiondo nel disgraziato bagno e che che cosa ti trovo?! sotto un getto d’acqua battente, lei accucciata e sanguinante. Singhiozza lei e guaisco io, fin quando la vedo tentare di tirarsi su e poi arrancare verso lo specchio. Con occhi da pazza controlla che cosa l’è successo: sulla chiappa destra scorge di avere una fragola gigante, un tattoo rosso sangue! Quando poi si tasta la nuca spalanca gli occhi come mai prima, tanto che dal panico me la faccio addosso.

“Cazzo! Ma che taglio mi son fatta?!” comincia a singhiozzare come una bambina pazza e bellissima sotto una cascata di capelli arruffatissimi. Ancora nuda e gocciolante si dirige a tentoni verso la cucina e con mano tremante apre lo sportello del freezer per estrarre il ghiaccio dal contenitore e ficcarne qualche pezzo dentro la boule. Roba da film horror: la maniglia dello sportello rimane impiastrata di sangue e a questo punto io non posso non ululare. Continua a piagnucolare mentre si preme la boule sulla nuca: quando la rimuove per controllare, c’è sangue dappertutto. Sono sincero: il sangue di solito mi eccita ma questa volta mi dà soltanto delle palpitazioni che se continua così mi spezzeranno il cuore.

“Ma che idiota sono?! Mi sono spaccata la testa… come faccio a far finta di nulla ora, devo per forza andare da qualcuno per farmi ricucire, ma da chi, da chi? E dove? Quando?!” I cani e gatti della radio ora tacciono e per prima cosa sta telefonando al centro estetico delle cagnette VIP per cancellare l’appuntamento. Sta facendo tutto al rallentatore e usa un tono calmo e pacato, spiega alla tipa che al momento non è in grado di riprogrammare e che si farà risentire appena possibile. Il suo autocontrollo mi dà speranza. Forse il peggio è passato.

Ora si è asciugata e sta cercando di vestirsi facendo attenzione a tener ferma la boule sulla ferita che ora non sanguina più. Per sicurezza tiene assieme il tutto con la fascia arcobaleno del Color Run di Bucarest. Quando però finisce di infilarsi maglia pantaloni e giacca,  si accascia inerte sulla poltrona. La vedo che inspira ed espira con una lentezza estenuante: sta appuntando lo sguardo su un angolo del soffitto cercando di riprendere energie. Quando chiude gli occhi sono pronto a scommettere che si sia addormentata invece deve aver sentito il rumore dei miei pensieri e si gira a lanciarmi uno sguardo severo dei suoi: WAW, penso, la mia padrona si piega ma non si spezza! Ora lo sguardo è di nuovo vigile sullo schermo dello smartphone mentre il dito scrolla e cerca, immagino, dove andare a farsi ricucire la testa.

Mi avvicino scodinzolante nella speranza che mi dica, su Tognazzi, andiamo! Ma è una stupida illusione e tutto quello che mi fa, mentre con fatica fa scivolare i piedi negli scarponcini senza calze, è una rapida strigliata al dorso. Sono diventato trasparente, ha occhi soltanto per il suo telefono. Invece no, mi sbaglio, ora si è accorta di me e mi sta strigliando con crescente energia. Dura pochissimo però perché – DIN! – il telefono l’ha appena avvisata che l’auto è in strada.

“Torno presto, Tognazzi e ti prego, almeno tu, oggi, fa’ il bravo.” Il cuore mi batte forte forte in gola e la coda mi si muove a tergicristallo, lei nemmeno se ne accorge perché ha la testa e i pensieri tenuti insieme dal ghiaccio e dal dolore. Davvero spero che questa storia finisca presto e bene, sia perché mi fa battere il cuore troppo forte, sia perché oggi qui è la prima giornata in cui fiuto un’aria che profuma di sole.

Stretti per mano

A metà novembre le incantevoli ragazze di Kyiv attendono fiduciose l’arrivo dell’inverno. All’abito sobrio o svolazzante hanno aggiunto il dettaglio di una  sciarpa o un cappello in stile milanese: nulla del kitsch che spesso ispira le corrispettive di Bucarest. All’uscita della fermata  della metropolitana, la novità è servita: il marciapiede si è fatto bianco e ci mette pochissimo a riempirsi di impronte: scarponcini, stivali, scarpe con tacco. L’immacolato silenzio è sporcato appena dai guaiti di un cane. La scena è cambiata. In una luminosa giornata di fine inverno la neve ha invaso ormai tutti gli spazi della città. Schiere di anime mute camminano lungo percorsi obbligati e ai semafori migrano da un marciapiede all’altro. Noi due ci scambiamo sorrisi e ci teniamo stretti per mano, aspettiamo di attraversare. Ora però, proprio quando le cose si stanno mettendo bene e lui sta per dirmi qualcosa che aspetto mi dica da anni – quanti ormai? -, il guaito di un cane si fa più insistente, poi mio figlio mi tocca la spalla, “Mamma, dai, svegliati! Vieni a vedere in bagno, ci piove dal soffitto!”

Precipitata nella dura realtà di un nuovo mattino. Buongiorno, Kyiv. Sono trascorsi appena sei mesi da quando siamo arrivati con otto valige e un quadrupede che la tirannia delle cose ha già ripreso il controllo. Tutto ha covato nel cuore della notte mentre dormivamo, l’inconscio di ciascuno smarrito tra gli incastri di vecchi e nuovi vissuti, ingredienti base di ogni eterno inizio. Dopo anni di onorato lavoro, una tubazione al piano superiore ha ceduto dando il peggio di sé nel ventre della notte, perché non è vero che tutte le cose ci sopravviveranno, anche loro come noi invecchiano e a volte piuttosto male. Ancora in bilico tra due mondi, faccio per circumnavigare Tognazzi e afferrare la vestaglia ma lui  gioca d’anticipo scuotendo il pelo e zampettando lontano verso il suo angolo preferito della sala. Lo specchio dell’ingresso mi restituisce uno sguardo ottuso, gli rispondo con uno sbadiglio e mi fiondo su al terzo piano. Passano svariati secondi prima che la porta si apra. “Chiedo scusa per l’orario ma nel nostro bagno al secondo piano sta piovendo dal…” 

Quanto la giovane donna in pigiama a fiorellini abbia capito del mio inglese non è dato sapere perché la frase viene intercettata da un uomo giunto alle sue spalle. “Scendiamo a vedere!” In realtà scende soltanto lui, lei senza dire una parola scompare. Fulmineo mi segue giù con due fessure al posto degli occhi serrati su chissà quale altrove fino a un istante prima. Sulla porta non so perché ma lascio che lui mi preceda, guardingo entra e dirige lo sguardo in ogni direzione, prende nota di ogni dettaglio, compreso del bastardino che lo sta fissando con denti digrignanti e un orecchio teso. L’uomo ha capelli lisci e corvini, un corpo asciutto e muscoloso. La sua pelle diafana emerge da una canottiera immacolata tradita soltanto da una macchiolina scura al centro della schiena, dalla spalla destra una cicatrice scompare giù, convergendo proprio su quel punto. “Questa perdita non proviene dal nostro appartamento, il nostro è metà del vostro.” Come non leggervi una scheggia di antica rivendicazione, ma manca il tempo di elaborare e subito aggiunge “viene dall’appartamento accanto al nostro. Saliamo a vedere se c’è qualcuno.”

Ormai è del tutto sveglio e il suo sguardo siberiano mi scandaglia con flemma militare. Presto mi ritrovo di nuovo per le scale dietro di lui, su per polverosi gradini di pietra, l’olfatto che all’alba ancora fatica a gestire gli assalti di un marciume ristagnante. All’inizio avevamo creduto che fossimo stati sfortunati noi a essere capitati in una palazzina d’epoca pre-rivoluzionaria con un’area comune tanto negletta: cablaggi aggrovigliati e fili passanti sopra ogni porta, non un uscio uguale all’altro, alcune porte feticci di privacy dei giorni sovietici ancora in tetra vilpelle nocciola con imbottitura matelassé. Ci sbagliavamo: l’arredo dei condomini con tripudio di piante grasse, marmi e ottoni che a Milano dichiara la rispettabilità se non l’esistenza della classe media, nei vecchi stabili di Kyiv non ha corrispettivi: le scale sono terra di nessuno mentre, tuttalpiù, i moderni complessi residenziali aspirano agli standard di un lusso internazionale senz’anima, da hotel a cinque stelle. A mancare qui è, da tempi immemorabili, l’animale borghese.  Corpo sociale depennato nell’era sovietica, se n’è infine persa traccia nel DNA delle persone, fin dentro la lingua parlata:  qui si è soltanto uomini o ragazze, altro che signore e signori! Suoniamo più volte e invano il campanello. Senza nemmeno tentare di imbastire un dialogo, teniamo entrambi gli sguardi appuntati sul decrepito zerbino. Come sono densi i silenzi qui a Kyiv, penso anche alla giovane donna apparsa per un attimo e subito riassorbita nel silenzio delle cose. “Nessuno in casa. Posso avvisare io l’amministratore dell’edificio, ho il numero. Una buona giornata, sa dove trovarmi.” Delusa, spettinata e con la frustrazione di un sogno spezzato, mi limito a rispondere con un sorriso, semplice quanto potente elisir in queste terre sofferenti che tanto apprezzano l’Italia e il calore degli sguardi.

Con soddisfazione scopro che giù in casa i riti d’inizio giornata si sono consumati senza intoppi nonostante l’assenza della sacerdotessa: colazioni terminate, cane portato fuori e ragazzi in attesa dell’Uber. Lui già per strada, la prua contro flusso, per arrivare in ufficio, svariati chilometri più a Est, con borsa da palestra e mela salutare. “A stasera, mamma, buona giornata!” Un bacio di commiato stampato sulla fronte dai due che ormai mi superano in altezza: prove generali di distacco, la decrescita felice ha avuto inizio. Soltanto ieri li ho sentiti sgambettare dentro, per accompagnarli poi per la manina a dare il nome a ogni cosa attorno. Ora a tutto pensa Uber e presto la casa si svuoterà e rimarremo noi e il cane.

Prendo il materassino e corro a Pilates, per una pigra come me la disciplina del corpo è importante. Quando torno la casa è immersa nel silenzio. “Tognazzi, dove sei finito?!” In sala non c’è, lo ritrovo al bagno che contempla la situazione: il soffitto ha smesso di grondare, rimangono sempre più sporadiche gocce e un’aria ristagnante di umidità. Il cane umarell mi mancava, sorrido mentre sfilo dalla tasca della giacca il cellulare e cancello in blocco i primi dodici messaggi di un gruppo whatsapp dal quale non posso uscire ancora per un po’, in ossequio a una delle stupide regole non scritte della netiquette. Ma questa è un’altra storia. Con molto più interesse clicco sull’icona di Radio24 col sornione accento romanesco di Luca Telese che subito mi arruola nel popolo dei già svegli: italiani che addentano l’alba mentre tutti gli altri dormono ancora. Piccolo bluff il mio, è soltanto l’ora di fuso avanti in cui mi capita di vivere che mi assegna a questo esercito silenzioso di italiani. C’è la prof in pensione che siccome ha il sonno leggero ha deciso di rileggersi tutta la Divina Commedia, l’agente di commercio che si mette in marcia prima dell’alba per arrivare a coprire tutto il suo territorio, il camionista che percorre lo stivale da Nord a Sud e viceversa e il pendolare che ogni giorno affida il suo destino ai treni regionali.

Sorseggio la mia tazza di tè lasciandomi cullare da un mood neorealista e malinconico: cosa mi porterà questo nuovo giorno che si va imbastendo? Fuori intanto il sole si sta dando da fare: non è pioggia quella che sta picchiettando in cortile ma tutta la neve accumulatasi nei mesi passati che va sciogliendosi in un giorno di inizio primavera. Ora però basta perché come sempre sono in ritardo: dopo la prima emergenza del mattino mi rimane appena il tempo per una doccia veloce, prima di sgambettare dal parrucchiere delle VIP, per uno dei miei studi d’ambiente, diciamo così.

Tall and Content

Nicole Zeug, “The Tired Labrador”

Long story short, I am a middle-aged expat dog. A well-trained snow-white American Labrador. Call me a WASP dog and I take it in. At an early stage I was taught good manners, basic manners of come, sit, stay, wait, kennel, down and so forth. The idea behind that, you know the codes, you get along fine wherever you end up living. Anyways, you may already know that we Labs are calm and trainable and basically pleasant to be around and trainers can rely on our quick and analytical mindset. So here am I, your family guy, expat version.

Since my owners (or my breeder?) picked me up amid my siblings, I have lived in a number of places and been through an unending gallery of humans. As they walked me along the streets of New York, Turin, Milan, Moscow and Kyiv I have smelled life and its whims to the fullest. Dogs are no poets so I have nothing more to say and that will do.

Actually one thing: I still miss them, my siblings and my caring mom. How many times I have been on the point of believing it was one of their endearing silhouettes that was passing by on the other side of the street. I have ended up adapting, which is no complaining but sheer reckoning. I am quite easy going and respect humans. I play fetch, swim, go on a walk, or keep my owners’ feet warm. If ever, it is in ball games that I get really crazy and slightly out of control. If ever. With peers too I get along fine, I just cannot see the point in challenging any of them. I keep to myself, tall and content just like my image mirrored inside the neat elevator ascending to our share of paradise, up at the fifteenth floor. For sure, all the affable strokes I have been bestowed upon by unknown hands as I was walked here and there, satisfy my long for rewarding. If any.

Now, don’t ask me why, either my breeder or my owners named me after a human language dictionary. By now I have got used to my bookish self,  kind of an omen nomen thing, if you get what I mean. More. Fishing the sound of that exotic word amid the thousand others that gush out from my owners’ mouths gives me a sense of belonging – even of purpose, a confirmation anyway, that I belong to their daily rites, just as much as they do to mine. What else to long for, I wonder as I lay down on the soft king-size mat they bought me at that oligarchs’ pet shop back in Moscow days. 

Surely, humans seem obsessed with words, urine definitely not being an option for them to mark their territory. It is words that they rely upon to make the trick. Not only my owners – all of them. Floods of words are being exchanged by the minute, and the more they flow others with them, the more they are expected to be in control of anything. Almost. Barking is a harsh fallback to them. They have an instinct for playing with words just like we do with sticks and balls. Their apprenticeship with them, though, actually takes their whole lifetime.  Truth is, to catch up with them, all you need is to pick out a few salient words out of their unending stream of blah-blah-blah. We are straighforward and lucky, wired as we are. Take our sense of smell. I just need to take a whiff of my folks’ smell, especially of HER scent, and I am the happiest old pup on earth. 

Can we say the same for them? How can they expect to reach out to one another through all the layers of words that keep on growing on their skin? Still, that is in their blood and there is no point in criticizing. Take it or leave it. Aren’t we called their best friends? Give us a whiff of this and a whiff of that and we figure out the whole world and rarely feel that miserable, anyway. Take expat dogs: every now and then our owners are expected to  decamp and we are asked to adapt into new spots, get exposed to unsmelled scents, put up with misleading new street layouts. That’s nothing compared to their ordeal, including their taming of whole new sets of words – foreign languages they call them – and related new social skills.

Good thing is, I am only expected to understand my owners’ words, which is an endearing blend of American English and Italian. And how much do I love the sound of that latin language (am I surprising you? Not only am I acquainted with the existence of Latin but I am also rather attracted by its rich smell), the singing way she summons me for a walk, “sei pronto, WEBSTER, andiamo?”, my tail wagging from side to side,  to reach for the entrance door never takes me longer than a second. I am there, I am HERS, ready to smell the world all over again.  Long story short, no matter if you are a working dog, a service one or just an expat family guy, you end up seeing them exactly as they are, beneath their invisible coats of useless words.

Pelle d’asino

L’ombelico ormai non esiste più, la pelle del pancione è tesa al massimo. Lì sotto c’è lui che sta costruendo sè stesso, accumulando grammi di identità e nuotando le acque dense di una piscina primordiale. Gambine che scalciano o puntano senza complimenti contro pareti già troppo tolleranti. Ed è tutto vero: nulla delle immaginarie sbirciate di profilo davanti allo specchio con la pancia all’infuori per vedere come appari quando sei incinta; ora lo sei davvero e lui sta crescendo di te e presto da te uscirà per iniziare la sua corsa. Le ore più belle del giorno sono quelle trascorse a leggere , la mano spalmata sulla pancia per non perdere il contatto – starà sognando, starà giocando, terrà il pollice in bocca, riderà? Nel ripiano superiore dell’armadio c’è una grossa scatola di cartone blu dove campeggia la scritta bianca GAP. Dentro, avvolti in fogli di velina bianca, hai messo i primi costumi di scena con cui presentarlo al mondo – tutine a righe verdi, braghette di cotone blu, un cappellino bianco di lino.

Diciotto anni fa ho rischiato di perderti per sempre. Colpa di un istinto materno difettoso o di una lenta reazione al cambiamento. Quante manovre sbagliate ho accumulato prima di capire che concepire un figlio non equivale a ospitare qualcuno in un recesso del proprio corpo mentre fuori indossi il costume di sempre. No, la geografia del corpo cambia e i confini si espandono: la vecchia pelle non basta più a coprirlo tutto e in alcuni punti l’anima rimane nuda. Tu, cocciuto sin da subito, me lo hai fatto capire nel modo più spietato. 

Ho perso sangue come un animale ferito. Era la prima gravidanza e non sapevo che questo succede quando c’è una minaccia d’aborto; ho lasciato passare parecchi minuti prima di riconoscere che avevo bisogno d’aiuto. Presto è subentrato il senso di responsabilità che subito ha istruito il processo alle azioni sbagliate, trovandomi colpevole di molti reati. Avevo continuato a lavorare, prendere treni, aerei e un auto fino nel Nord della Germania. Il colpo di grazia però te l’avevo dato a Natale in montagna, quando non ho saputo dire di no a quella lunga camminata nella neve fresca alta fino alle ginocchia. Conficcavo un piede dopo l’altro nella coltre immacolata bevendo quell’aria profumata anche per te, convinta di fartene il primo grande dono di tanti altri a venire. E che a scricchiolare fossero soltanto i passi e non anche qualcosa nei caldi tessuti del ventre, il laboratorio dove il tuo essere era in costruzione.

“Ora devi stare ferma”: al telefono il tono perentorio del ginecologo ha trafitto la mia coscienza, “rimani in riposo assoluto e prendi queste pasticche ogni giorno.” Per due mesi sono rimasta acquattata a letto.

Quando ti abbiamo visto nell’ecografia, come eri già potente nella tua minuscola fragilità, al centro di una scena da cinema muto: un cuoricino pulsante in bianco e nero e in assenza di audio. Il tempo anestetizza i ricordi e per ritrovare il papà e me, giovane coppia, devo scavare più sotto: eccoci là, spettatori paralizzati di fronte al mistero di una vita che sta lottando per divenire.

Subito dopo la nascita ti hanno avvolto in una copertina termica e ti hanno sistemato su di un fasciatoio arancione. Non ricordo alcun suono né il tuo primo vagito, soltanto il modo prodigioso e malinconico in cui hai cominciato a occupare il tuo spazio nel mondo. E, il giorno successivo, il nostro primo appuntamento. 

Nell’istante in cui l’infermiera ti ha estratto dal carrello pullulante di neonati disperati, il tuo pianto è giunto dritto a me, ben staccato da tutti gli altri: la tua voce, per sempre. Con cauta incredulità ho incominciato ad attaccarti al seno e a passarti il mio pochissimo latte. Bambina che gioca alla mamma, ti ho posto al centro del letto per osservarti: dormivi placido, avvolto nella tua tutina di ciniglia azzurra. “Ora chiudo gli occhi, li riapro e avrai già diciott’anni. Come sarai? Ho fretta di conoscerti.”

La risposta ora è qui: tu e io parliamo, sei un adolescente e quando i tuoi occhi si accendono in un sorriso, è  l’ennesimo segno di vittoria. Come allora però ti vedo in bilico. Crescendo sei divenuto uno splendido asino. A scuola vai senza curarti di studiare e non ti lasci convincere dalle parole dei professori. Ti tieni a distanza da qualsiasi libro che mi ostini a proporti. Sei convinto di sapere già tutto oppure che nulla valga la pena scoprire. Ora sei tu il cantiere di te stesso, questo hai cominciato a sospettare e anche a temere. Fabbricare sogni è il mestiere di un adolescente: vuoi diventare un campione di basket ma è soltanto un sogno e tu lo sai. Chissà quali pensieri ti attraversano mentre digiti fulmineo i tasti dello smartphone, quali paure, e come non vederti ancora come quel pesciolino palpitante sospeso tra la vita e il buio anecogeno. Hai un fisico armonioso e un profilo da filosofo, sebbene forse non sai nemmeno chi fossero questi filosofi dell’antica Grecia. A volte i tuoi pensieri mi colpiscono come i calci di un asino, dolorosi ma vitali: è la tua energia interiore che cerca una via, una vocazione. O un sorriso di incoraggiamento che non so donarti.

Un mattino hai cambiato pelle e tutto è stato diverso. Hai scritto una lettera al preside e a noi genitori. Ci hai fatto sentire piccoli, meschini. Con lucidità e passione hai dato forma a pensieri covati nei giorni, negli anni. Nel modo più deciso ci hai comunicato le tue intenzioni: rinunciare al basket perché capisci di non avere sufficiente talento e impegnarti nello studio. Aggiungi anche riflessioni che farebbero la gioia di un educatore appassionato. Un giorno poi quella pelle è caduta e un’altra si è formata, poi un’altra ancora. Ti vedo correre ed è bello vederti cercare il tuo cammino. Intanto la pelle che mi ricopre non basta, qualcosa rimane sempre esposto. 

Arrivederci, Professor Colombo

Gli occhi gonfi di Clara fissano senza vedere una gamba del tavolo inglese, sono sul punto di tracimare e forse per impedirlo preme due dita sulle labbra serrate. La combinazione di capelli biondo stopposo e pelle cotta dal sole la trasformano in un elemento esotico da salotto borghese, maschera tribale simile a quelle che da bambina Anna aveva contemplato con timido orrore al museo Pigorini. Anche i ragazzi hanno perso le parole. Custodi di pensieri remoti, osservano la madre turbinare da una stanza all’altra di una scenografia domestica che presto resterà senza attori. Per sempre? Anna non ha tempo di pensarci né di incoraggiare emozioni superflue, si ripromette di indulgervi in un momento più opportuno. Il fatto è che nell’ultima manciata di giorni le ore le si sono affastellate. A pochi minuti dalla partenza è ancora lì a vagliare le ultime mille questioni pendenti – scartoffie, oggetti -, compresa la gestione del cibo: quello da eliminare, da lasciare o da portar via. Difficile uscire di scena.

“E queste sacche dove le vuoi mettere? Quanto tempo ti serve ancora? Stiamo facendo tardi e soprattutto l’auto è già stracolma!” La carica di ansia che non le è stata trasmessa dalla madre del compagno, troppo devastata dalla notizia fresca fresca del decesso per complicanze post-operatorie dell’amata gatta, le giunge da lui. Infine, è il momento dei saluti.

“Ciao Papà, mi mancherai, guida piano, ti voglio tanto bene.” C’è calore più che mestizia nello sguardo del loro grande dodicenne. Come se ormai avesse mutato pelle: non più il bambino smarrito che in un’alba gelida di dicembre aveva abbracciato il padre che partiva con una grossa valigia. Allora qualcosa dentro di lui deve essersi infranto per sempre, secondo il padre, un trauma irreversibile, secondo la madre, un necessario rito di passaggio, il primo di tanti che la vita gli avrebbe riservato. Il turno di abbracciare i ragazzi arriva anche per Anna e a tutti – a eccezione di Clara – scappa un sorriso complice: questo è un momento epico per la famiglia, qualcosa che non cambierà la grande storia ma di certo il corso dei loro destini. “Siate bravi con la nonna. Lele, rispetta e aiuta sempre tuo fratello. Vedrete come passano in fretta due giorni, vi aspettiamo agli arrivi, buon volo, ragazzi!” Per monelli di nove e dodici anni, nati e cresciuti a Milano, cambiare città, scuola, amici – ma soprattutto squadra di basket – equivale a un trasferimento su Marte. Addio compagni, addio coach, addio Lambrate. I trolley che li assisteranno nel delicato passaggio, sono già predisposti in un angolo della loro stanza e basterà completarli con qualche reliquia dell’ultimo momento. All’aeroporto, dopo un abbraccio infinito e un commosso arrivederci, la laconica nonna consegnerà nipoti e bagagli all’assistente di volo.

Sette piani più sotto, la strada li attende: sono pronti per partire. È una calda e tranquilla mattina di inizio settembre, il momento giusto per migrare, a lui il volante, ad Anna la scelta del percorso – un nastro d’asfalto lungo 1860 chilometri. Un segno della croce, un Padre Nostro, un sorriso e si va.

“Arrivederci, Professor Colombo!” – la sente esclamare all’angolo di piazzale Leonardo e le lancia uno sguardo interrogativo. “Ogni mattino coi bambini salutavamo la statua mentre tagliavamo il piazzale verso la scuola.” Anna prova un dolce sollievo nel vedere che il collo del pensoso primo rettore del politecnico è stato liberato dall’hula hoop arancione che un goliarda era riuscito a lanciare fin lassù, “è stato un onore conoscerla, buona giornata, ci mancherà! Addio, Milano, Bucarest stiamo arrivando!”

A Trieste arrivano in un baleno e lì si concedono un selfie solenne. Col tempo riusciranno a decifrare i pensieri nascosti dietro quei due sorrisi. Così diversi da quelli da turisti per caso, abbronzati e ingenui, catturati nel photo boot del Meeting di Rimini l’estate precedente. La foto di oggi sembra scattata in testa a un trampolino, in bilico sull’ignoto. Sguardi simili si trovano in loro foto del passato, quando, finiti gli studi, avevano fatto il loro ingresso nella vita adulta. Con una differenza: ora sono responsabili dei destini di due bambini. Anna si volge indietro: i loro sedili sono stati abbattuti e ora c’è un’unica distesa di borse e valigie ricoperta da un lenzuolo bianco, sudario del passato e copertina per un futuro che sta per nascere. Con soddisfazione osserva che è riuscita a trovare spazio anche per la bella chitarra spagnola, forse un giorno Lele riprenderà a suonarla. No, alle spalle non si sono lasciati nulla, in anticipo di due giorni sull’arrivo dei due, soltanto per predisporre il nuovo nido.

Migranti come innumerevoli altri in questo mondo instabile, fanno parte della privilegiata schiera degli expat, che possono permettersi di lasciare la propria terra alla ricerca di una vita più piena. Anna lo sa e ne sente la responsabilità: hanno fame di nuove occasioni di crescita, nuovi paesaggi, nuovi incontri. Il lago Balaton sfila via nitido e ventoso alla loro sinistra: sono giunti a metà strada e un filo sempre più tenue li lega alla loro vita precedente.

Quando varcano il confine romeno di Arad, Anna osserva per la prima volta i grossi nidi di cicogna su dei tralicci o sui tetti delle piccole case. Una nuova stagione sta per cominciare.

Inconspicuous Mother

I can see her slim figure tilting on a spade in the early morning sun digging in the orchard. Her high-pitched “Buongiorno!” together with her encouraging smile as she watches me reaching her, definitely wakes me up. We are deep in summertime of my eighteen. She has always loved gardening but to grow her own vegetables has been a recent conquest, the glowing result of settling down after years of a gypsy life: finally able to stamp feet on her own ground, a call of her peasant DNA, maybe.

Seasons have been piling up till the five of us sons and daughters have grown adults. Then one day she realised something new. Her bones had grown too stiff to take personal care of her tender crops. She put on her reading glasses and looked up for Gino’s number. Soon that little old peasant, a peer of my dad’s from elementary school days, started to become a regular amid our tomato, cucumber and green bean plant rows.

It was in preparation of glorious Summer that she would be keeping on investing her money and all of her time. In fact, not only would the garden and the big house draw her energies, but also special care would be paid on her outer and inner selves. Reading, regular walking, visiting church next door, everything would contribute to make her fit for our arrival. In that season her offsprings and nephews would show up, with the declared intention to spend at least part of their holidays “back home”; the nest and its guardian would be indeed ready to receive them all.

The long convent table under the lodge is the altar for family rites. Along with always al dente succulent pasta, colourful appetising dishes prepared with her zucchini, tomatoes, aubergines and green beans are being served there. They are passed back and forth along the table, from hands to hands, smile to smile, most of the time.

Like any Italian mother she has articulated her own food language and by that family code she has always been able to reach those she loves. Her husband, our father, would benefit much from all that too. He would sit at the head of the table facing the church (our right-hand side neighbour), bestowing his mockingly serious bliss on the food we were on the point of sharing. That too was part of our family rites which she accepted and even longed for.

She also well tolerated his very personal gardening style. First thing, she could never tell when he would be available for help, then he would unpredictably choose his tasks, like, he would climb up the poplar tree with the excuse to prune some of its stupid branches, sometimes indulging in some clownish scene, like his screaming aloud voglio una donna! (I want a woman), just like lo Zio Teo, the crazy character in Fellini’s Amarcord. He would do it to draw the attention of our left-hand side neighbour’s bimbo wife, mainly, though, for the sheer fun of us all.

My mum would look on from a distance with her mild smile, possibly reminding herself that that was one of the reasons why she had chosen to marry him instead of the other and indeed he was an unconventional, lively, free spirit. That probably explains also why – among all other things – he loved fire and the brave act of taming it, making him a tribal priest of kind. He would dutifully assemble dry leaves, pick up any piece of paper or wooden material around, to pile all up in a corner of her orchard, to be finally and unexpectedly ignited on a whim. In fact, she did not like that at all, actually she hated it. Sharp on time, with a dramatic intonation in her voice, she would warn everybody around to shut down all windows and doors, to keep that hellish smell away from inside her house.

For thirteen years now she has been leaving alone in her three- storey house, finally able to decide when to keep doors and windows wide open at zero risk of smoke smell getting inside, windows that my still childish imagination resembles to human eyes open onto outer worlds. It was an Easter Eve. My father was supposed to bring back home ravioli for our Easter supper. Before that, he had many plans for the day, first of all an exciting transfer. Something went wrong, though, and the left wing of the ultralight plane which he had just bought somewhere North and was taking home on its inauguration flight, cracked down leaving him no escape; the sea below swallowed it along with him.

The accident made her angry rather than sorrowful. His sudden disappearance triggered in her a deep sense of frustration, as if victim of a major form of betrayal. How many years had she been patiently expecting that he, just turned elderly enough the week before, realised the moment had come for him to stop flying and start a new more mindful phase? She had always been confident that they had still time ahead to share, despite different personalities. She strongly felt she deserved it and now it was his fault that everything wound up this way.

Since then, every following summer she has been keeping her usual seat on the right corner of the long table under the lodge, while her husband’s head seat has stayed vacant, strictly if informally assigned to one of us five in turn, never ever conceded to any of our annexed partners, if not under very very special circumstances.

Indeed, something in the alchemy of her dinners had changed for good. Her cooking turned more lukewarm, less piquant and spicy. We still enjoy her flavoured pasta and rich vegetable dishes – whatever their origin -, but everything just tastes different now.

When a new summer ends, all of us visitors leave. From inside her fortress home she looks up in all possible directions, with the five of us living in scattered parallel worlds. Apparently that does not affect her much. Despite she is shortsighted and wears thick lenses all the time, she succeeds in reaching out on us wherever we are. Technology is her strategic ally: her social media accounts keep her busy and watchful.

At times she surprises us sending pictures she has just taken on her morning walk along the seaside. She never takes selfies, though. She is rather a natural reporter of minimal events, which may materialise in a seagull hovering on a sunny solitary beach, the vivid meeting up of skyline and sea along the horizon, located somewhere beyond the very point where he entered the waters, or the glimmering floating ashore of a wooden piece after undergoing artistic sea change.

She harkens sea changes also inside herself, continuously recalculating her priorities. That is what she must have done when she elaborated a new plan: enough with her orchard and home-grown veggies and ahead with a space where her youngest one could put foundations for his new family house.

Teo is the youngest of all and the only one still living in town. Their umbilical cord was formally cut forty years ago, when she was already forty-one and mother of four pre-adolescents. It was a late unplanned pregnancy, complicated with the risk of exposition to chicken pox viruses in the air of a Christmas family reunion.

Back then, prenatal diagnosis offered quite limited options and she just chose not to hear all those who wisely advised her not to venture on a too risky pregnancy, those including her partner. Defiantly and just like a patient peasant, she chose to nurture her inner soil till harvest time. I remember we spent a whole month or so separated from her within our small flat in Milano; we would communicate via a board placed the buffer zone of our long corridor. Soon her belly started to blossom. We were all thrilled.

Yet, going back to those strange days I cannot detect any sense of trauma, rather excitement and even bliss. We were elementary school kids and to catch our attention she would sketch funny drawings assigning us tasks and telling us how she/they two were doing. With hindsight, I have no idea whether such logistic measures actually prevented hideous chicken pox viruses from hitting our yet in-progress brother. I do know for sure that she taught us what resilience means: no matter what, never give up and never feel alone nor let down. Even better if you keep smiling.

Her approach proved successful: her harvest was stunning. Few months later, in a late-July full-moon night, our brother “Gift from God” made his epiphany. A new family chapter was to begin. I walked to the hospital to see him for the first time. I squeezed my nose onto the nursery glass panel to scan all the cots in search of his name, till I spotted MATTEO: there he was, so gorgeously regal, amid all other newborns. A six-grader, I kept on contemplating my brand-new brother with mixed feelings: what was looming ahead for me? Would it be just like playing dolls or, rather, a new threat and source of family extra tasks? Either ways, I suddenly realised I had become a grown-up.

“Look at this wonderful baby here! Can you believe that his mum is the very one that married the aviator?! He is such a handsome man but she is so inconspicuous!” Three women were commenting my brother’s genes just beside me.

An the trick was made: my wonder mum turned into an inconspicuous middle-aged woman. For the first time I could see her under external eyes. True, you could not define her as a stunning beauty, still she has always looked pleasant, as charming as any smiling woman wearing glasses and not pretending to stay blonde while her hair has gradually whitened… I also observe that she has always had nice-shaped legs, if not vertiginously long to make a major impact.

Admittedly, to sync the three women’s vision of her with my own magnificent one, took me a while, finally proving a punch in my stomach. Truth is that I was not vaccinated yet against local gossiping, or rather, the real world. We had never really settled down for long enough to go local. We used to live in a realm of our own, with parents its absolute monarchs. Every three years or so we would relocate somewhere else, according to my dad’s new assignments as an Air Force officer. Till that day of recognition, the quiet sea-town and its simple people had only represented a background if friendly scene in our holiday seasons. Now we were there to stay, at least for a while longer.

When the women’s comments were reported home, it actually took us very short to digest them into a family joke as the myth of the inconspicuous mother. So it was that to celebrate our new family member and dispel any past misgiving, my dad sparkled a major bonfire. Many neighbours complained that night, not she who was still in hospital breastfeeding the newcomer.