Le cose senza di noi

E ora qui ci sei tu, davanti a me mentre mangio un poetico panino imbottito con rucola, prosciutto e scaglie di parmigiano. Un pasto dignitoso dopo giorni di lavoro cinese. Le tue nevi del Kilimangiaro. Sono scassata, smontata e appena sopravvissuta a una settimana di trambusto domestico. Le tue placide distese bianche, caro Monte Rosa, mi sorridono e tutta la stanchezza mi fai sciogliere via. Torno a sorridere. Ci fissiamo, io col mio panino e bottiglietta Panna, tu, col tuo magnetismo ancestrale, appena oltre questa vetrata dell’aeroporto Malpensa. Poi saluto lei, che a trecento chilometri più a sud vive come una conchiglia attaccata al suo scoglio. La sua voce familiare mi raggiunge sempre, onde nell’orecchio della malinconia.

Ho chiuso la nostra casa milanese per la penultima volta. La sua vecchia vita ha i giorni contati, ancora una settimana e sarà data in pasto ad avventori occasionali, gente che pagherà per dormirci comoda e farci docce calde e cucinarci qualcosa al volo, tra una visita a un museo e a una galleria d’arte. Con lucida visione la nostra quotidianità di un tempo è stata vivisezionata e dalla sua carne sono nate due unità separate che profumano di nuovo e di non luogo. Quante e soprattutto quali altre storie si accavalleranno tra le pareti alzate sopra le ceneri della cittadella domestica? Quali destini, quali lingue, quali pensieri e tribolazioni e ambizioni e promesse elettrizzanti conterranno quelle nuove stanze? Mia vecchia cara montagna, non è questa un’altra piccola vittoria delle cose senza di noi, che, con perfette regole di ingaggio, svuotano per riempire daccapo cassetti di destini altrui?

Le stanze che hanno registrato (l’avranno poi fatto davvero?) silenzi, risate, pianti e grida, hanno perso ogni eco: gusci vuoti fingeranno di servire altri abitanti. Arrivederci, Monte Rosa. Anche tu, dopo il decollo, ti farai sempre più insignificante, fino a soccombere, oltre la linea dell’orizzonte.

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