Pelle d’asino

L’ombelico ormai non esiste più, la pelle del pancione è tesa al massimo. Lì sotto c’è lui che sta costruendo sè stesso, accumulando grammi di identità e nuotando le acque dense di una piscina primordiale. Gambine che scalciano o puntano senza complimenti contro pareti già troppo tolleranti. Ed è tutto vero: nulla delle immaginarie sbirciate di profilo davanti allo specchio con la pancia all’infuori per vedere come appari quando sei incinta; ora lo sei davvero e lui sta crescendo di te e presto da te uscirà per iniziare la sua corsa. Le ore più belle del giorno sono quelle trascorse a leggere , la mano spalmata sulla pancia per non perdere il contatto – starà sognando, starà giocando, terrà il pollice in bocca, riderà? Nel ripiano superiore dell’armadio c’è una grossa scatola di cartone blu dove campeggia la scritta bianca GAP. Dentro, avvolti in fogli di velina bianca, hai messo i primi costumi di scena con cui presentarlo al mondo – tutine a righe verdi, braghette di cotone blu, un cappellino bianco di lino.

Diciotto anni fa ho rischiato di perderti per sempre. Colpa di un istinto materno difettoso o di una lenta reazione al cambiamento. Quante manovre sbagliate ho accumulato prima di capire che concepire un figlio non equivale a ospitare qualcuno in un recesso del proprio corpo mentre fuori indossi il costume di sempre. No, la geografia del corpo cambia e i confini si espandono: la vecchia pelle non basta più a coprirlo tutto e in alcuni punti l’anima rimane nuda. Tu, cocciuto sin da subito, me lo hai fatto capire nel modo più spietato. 

Ho perso sangue come un animale ferito. Era la prima gravidanza e non sapevo che questo succede quando c’è una minaccia d’aborto; ho lasciato passare parecchi minuti prima di riconoscere che avevo bisogno d’aiuto. Presto è subentrato il senso di responsabilità che subito ha istruito il processo alle azioni sbagliate, trovandomi colpevole di molti reati. Avevo continuato a lavorare, prendere treni, aerei e un auto fino nel Nord della Germania. Il colpo di grazia però te l’avevo dato a Natale in montagna, quando non ho saputo dire di no a quella lunga camminata nella neve fresca alta fino alle ginocchia. Conficcavo un piede dopo l’altro nella coltre immacolata bevendo quell’aria profumata anche per te, convinta di fartene il primo grande dono di tanti altri a venire. E che a scricchiolare fossero soltanto i passi e non anche qualcosa nei caldi tessuti del ventre, il laboratorio dove il tuo essere era in costruzione.

“Ora devi stare ferma”: al telefono il tono perentorio del ginecologo ha trafitto la mia coscienza, “rimani in riposo assoluto e prendi queste pasticche ogni giorno.” Per due mesi sono rimasta acquattata a letto.

Quando ti abbiamo visto nell’ecografia, come eri già potente nella tua minuscola fragilità, al centro di una scena da cinema muto: un cuoricino pulsante in bianco e nero e in assenza di audio. Il tempo anestetizza i ricordi e per ritrovare il papà e me, giovane coppia, devo scavare più sotto: eccoci là, spettatori paralizzati di fronte al mistero di una vita che sta lottando per divenire.

Subito dopo la nascita ti hanno avvolto in una copertina termica e ti hanno sistemato su di un fasciatoio arancione. Non ricordo alcun suono né il tuo primo vagito, soltanto il modo prodigioso e malinconico in cui hai cominciato a occupare il tuo spazio nel mondo. E, il giorno successivo, il nostro primo appuntamento. 

Nell’istante in cui l’infermiera ti ha estratto dal carrello pullulante di neonati disperati, il tuo pianto è giunto dritto a me, ben staccato da tutti gli altri: la tua voce, per sempre. Con cauta incredulità ho incominciato ad attaccarti al seno e a passarti il mio pochissimo latte. Bambina che gioca alla mamma, ti ho posto al centro del letto per osservarti: dormivi placido, avvolto nella tua tutina di ciniglia azzurra. “Ora chiudo gli occhi, li riapro e avrai già diciott’anni. Come sarai? Ho fretta di conoscerti.”

La risposta ora è qui: tu e io parliamo, sei un adolescente e quando i tuoi occhi si accendono in un sorriso, è  l’ennesimo segno di vittoria. Come allora però ti vedo in bilico. Crescendo sei divenuto uno splendido asino. A scuola vai senza curarti di studiare e non ti lasci convincere dalle parole dei professori. Ti tieni a distanza da qualsiasi libro che mi ostini a proporti. Sei convinto di sapere già tutto oppure che nulla valga la pena scoprire. Ora sei tu il cantiere di te stesso, questo hai cominciato a sospettare e anche a temere. Fabbricare sogni è il mestiere di un adolescente: vuoi diventare un campione di basket ma è soltanto un sogno e tu lo sai. Chissà quali pensieri ti attraversano mentre digiti fulmineo i tasti dello smartphone, quali paure, e come non vederti ancora come quel pesciolino palpitante sospeso tra la vita e il buio anecogeno. Hai un fisico armonioso e un profilo da filosofo, sebbene forse non sai nemmeno chi fossero questi filosofi dell’antica Grecia. A volte i tuoi pensieri mi colpiscono come i calci di un asino, dolorosi ma vitali: è la tua energia interiore che cerca una via, una vocazione. O un sorriso di incoraggiamento che non so donarti.

Un mattino hai cambiato pelle e tutto è stato diverso. Hai scritto una lettera al preside e a noi genitori. Ci hai fatto sentire piccoli, meschini. Con lucidità e passione hai dato forma a pensieri covati nei giorni, negli anni. Nel modo più deciso ci hai comunicato le tue intenzioni: rinunciare al basket perché capisci di non avere sufficiente talento e impegnarti nello studio. Aggiungi anche riflessioni che farebbero la gioia di un educatore appassionato. Un giorno poi quella pelle è caduta e un’altra si è formata, poi un’altra ancora. Ti vedo correre ed è bello vederti cercare il tuo cammino. Intanto la pelle che mi ricopre non basta, qualcosa rimane sempre esposto. 

Advertisement